Scena 13
(Tanaka)
Sul set di Two-Lane Blacktop, Monte Hellman s’innamora della sua protagonista, Laurie Bird. Lui è sulla quarantina, lei ha circa la metà dei suoi anni. Mi piace immaginarlo travolto da una relazione intensa, mai vissuta prima o, perlomeno, non con l’inesperienza della prima giovinezza. Nei suoi film precedenti non c’era mai stato posto per l’amore. Ogni affetto era destinato a non sbocciare. I personaggi, sia uomini, sia donne erano forzatamente chiusi in loro stessi, senza scampo, costretti dagli eventi o dal loro stile di vita a un destino di solitudine.
Cockfigher (1974), è il film dell’amore. E’ un’affermazione paradossale, per un film che mostra autentici mortali combattimenti tra galli e un protagonista che, all’inizio, perde in una scommessa sia il suo caravan, sia la donna con cui vive (ancora Laurie Bird). Eppure con la caduta e ascesa di Frank, un immenso Warren Oates in uno dei suoi ruoli più memorabili, nel mondo semisotterraneo del cockfighting (oggi proibito in tutti gli stati americani), con la sua muta ostinatezza per voler “essere il migliore”, s’interseca una storia d’amore adulta e sincera che illumina, come mai nei lavori precedenti, una vicenda che, altrimenti, sarebbe stata poco più del macabro documentario a forti tinte, come il produttore Roger Corman aveva forse in mente. Tutte le scene d’amore del film, sono il frutto di una riscrittura voluta da Hellman e la frase finale pronunciata da Frank, ambiguamente romantica, è di puro pugno del regista.
Scena 14
Cockfighter
Scena 15
Dai titoli di coda del film la MDP carrella indietro e vediamo una piccola sala di proiezione con due sole persone di spalle: Monte Hellman a 40 anni ca. e Tanaka.
Cambio di prospettiva e la MDP riprende il dialogo di fronte
(Monte Hellman, Tanaka)
MH: Avrei voluto riscrivere tutta la sceneggiatura di Cockfighter insieme a Earl Mac Rauch ma, dopo la prima settimana di lavoro insieme, Roger Corman mi disse che ci avrebbe concesso solo un’altra settimana. Ci concentrammo allora sulle scene riguardanti la storia d’amore. Sono convinto che, se avessimo potuto scrivere più scene come quella del portico, del fiume e il finale, avremmo potuto avere una migliore comprensione del personaggio di Warren e anche degli altri. Credo, insomma, che avremmo avuto un film migliore.
T: Non lo so, Monty. Non credo al senno del poi, in generale e meno che mai per un prodotto così complesso e, per certi aspetti, imprevedibile come un film. Per me Cockfighter è il tuo lavoro migliore. Meno cerebrale, scusa se te lo dico, di Two-Lane Blacktop e meno sentimentalmente disilluso del successivo, pure molto riuscito, China 9, Liberty 37. L’idea di ambientare un film nel mondo del combattimento tra galli, realtà quasi estinta tranne che in Paesi con ancora qualche residuo di libertà personale come le Filippine, vale da sola la visione.
(Parentesi per gli amici animalisti onnivori: se credete che le scene di combattimento tra galli siano una crudeltà, v’invito a visitare una fabbrica di polli di allevamento. Per quelli anche vegetariani, se il valore è la vita, non capisco lo sprezzo per quelle del solare pomodoro o del cetriolo, nobile ortaggio, protagonista, non a caso di uno degli episodi più belli di Rick and Morty: Pickle Rick).
MH: L’idea è di Roger Corman, a me i combattimenti tra galli facevano senso. La maggior parte delle scene più crude sono state girate dalla seconda unità.
T: No, ok, il film è, come sempre, straordinario e fuori dal tempo, come tutti i tuoi altri ma la realtà di nicchia che descrivi è un motore che, a differenza delle corse in auto o della vita western, è priva di qualsiasi attrazione per lo spettatore. Alla fine siamo costretti ad amare e ammirare Frank, carattere ai confini della nevrosi grave, proprio perché le accuse di crudeltà che gli rivolge la donna amata sono plausibili e, contemporaneamente, totalmente sbagliate. I galli, così facilmente sacrificabili, sono solo gli strumenti della sua volontà implacabile, come i suoi beni e la sua vita stessa, ma il suo amore è reale e, a suo modo, tremendamente romantico.
MH: E’ una tua interpretazione, valida come tutte le altre, a dimostrazione che, come ho sempre sostenuto, l’audience collabora al film se, come in questo caso, gliene si offre la possibilità.
Scena 16
China 9, Liberty 37
Amore, piombo e furore (versione italiana)
Scena 17
Sui titoli di coda Monte Hellman, parla in macchina.
MH: E’ stata, probabilmente, l’esperienza più felice che io abbia mai avuto. Stavamo in questa meravigliosa città nel sud della Spagna, Almeria. Avevamo un intero hotel a nostra disposizione. Tutte le maestranze erano italiane. I cameraman avevano accesso alla cucina e, di notte, cucinavano la pasta per tutti. Sabato sera, scendevamo in città per mangiare caviale e baby anguille. Era idilliaco. Gli sceneggiatori Jerry Harvey e Douglas Venturelli erano sul posto e continuavano a scrivere durante le riprese. A volte cambiavamo la sceneggiatura aggiungendo frasi scherzose che erano scaturite dal nostro vissuto quotidiano. Tutti erano letteralmente coinvolti nel processo creativo. Quando iniziammo le riprese non sapevamo ancora quale sarebbe stato il finale del film. Questo è stato l’unico film da me diretto dove lo script è stato continuamente rivisto in corso di lavorazione.
Sam Peckinpah, Giusepe Rotunno, Sergio Leone e Monte Hellman sul set di China 9, Liberty 37
Scena 18
(Tanaka)
China 9, Liberty 37 (1978) è la felice incursione di Monte Hellman nello spaghetti-western. Gli elementi ci sono tutti: protagonista italiano (Fabio Testi, detto “il Sean Connery italiano”), le location spagnole, la title track di Pino Donaggio, la lussuosa fotografia di Giuseppe Rotunno (quello dei film di Fellini, per intenderci); eppure anche questo è un puro film di Hellman, con il Destino che sconvolge i piani sempre precari degli uomini, prigionieri delle proprie vite e del proprio passato. Ma Cockfighter non è stato un caso. L’amore entra di nuovo prepotentemente nella trama e ne diventa il motore. Il giovanissimo e prestante Fabio Testi è un killer che sta per essere impiccato, quando gli viene offerta la possibilità di un condono se si sbarazzerà del più anziano collega (l’immancabile e superbo Warren Oates) che adesso intralcia i piani della compagnia ferroviaria non volendo cedere la propria fattoria. Caso vuole che Oates abbia una giovane moglie, non particolarmente fedele, e che sia simpatico al killer il quale, a dire il vero, dimostra subito di essere un tenerone, se pur pericoloso. Amore e pallottole seguiranno, in una trama obliqua, a tradire, come sempre, il genere e le attese dello spettatore.
A proposito di tradimenti, nel 1974 Laurie Bird molla Hellman nientemeno che per il bellissimo, e ben più giovane, Art Garefunkel. La mia vena tabloid fatica a credere che l’insistenza del regista per il corpo nudo di Fabio Testi e il finale del film non siano stati influenzati dalle sue vicende personali.
Che belli, questi anni, dove un film di Hellman (senza che lui comparisse come regista) faceva cassetta in Italia, veniva invitato a Cannes e poi ritirato perché i produttori italiani temevano di dover restituire i sussidi statali, se si fosse scoperto che il regista era americano; dove si poteva lasciare uno spazio aperto per il cameo di Sam Peckinpah, grande estimatore del regista, arrivato appositamente in volo dagli States e dove una sceneggiatura in progress permetteva di stravolgere il finale, dando un senso diverso a tutto il girato precedente.
Calcolo e creatività sono e saranno sempre antitetici. Nessuno stupore se i film nelle multisala, oggi, siano quasi totalmente privi di contenuto, tranne quello espresso dal titolo.
Scena 19
Los Angeles, stanza del Beverly Hills Hotel.
Monte Hellman, Leonard Mann (Leonardo Manzella, attore e regista, amico di Hellman qui in veste d’interprete), Franco Di Nunzio (produttore italiano)
FDN (in italiano): Allora, questo Iguana, lo facciamo o no? Sento che mi porterà fortuna. Il tuo numero di telefono finisce con 33, gli anni di Cristo. Porta fortuna!
LM (in inglese a MH, traducendo): Ti chiede se lo vuoi fare il film. Dice che sarà un successo perché il tuo numero di telefono finisce per 33. Lo sai come sono superstiziosi questi italiani.
MH: Digli pure di no. La sceneggiatura è stata scritta da un incompetente. Ci sono dei dialoghi di quattro pagine. Non ci si fa niente.
LM: Ma no, Monty, tu questo film lo devi fare, dammi retta. Ci ho già lavorato con questa gente. Sembrano cialtroni ma, alla fine, sanno il fatto loro.
MH: No, guarda, non m’interessa proprio.
FDN: Che cosa dice il Maestro?
LM: Beh, dice che vede dei problemini nella sceneggiatura ma che è entusiasta del film e non vede l’ora di cominciare a lavorarci.
Scena 20
Iguana (versione italiana).
Purtroppo il final cut originale, della durata di 100 minuti, non è reperibile on line ma solo in blueray (qui):
Scena 21
(Tanaka)
Iguana (1988) è l’ultimo titolo che mi è piaciuto includere in questa maratona su Monte Hellman (“Hollywood’s Best Kept Secret” come lo definì il LA Times nel 1970) non già perché sia il suo ultimo lungometraggio ufficiale (seguiranno un anno dopo l’horror TV Silent Night, Deadly Night 3: Better Watch Out! e il meta cinematografico Road to Nowhere nel 2010) ma perché, a mio modesto ma insindacabile giudizio, è l’ultimo film fortemente connotato dalla sua personale poetica, mentre l’horror seriale dell’anno dopo e il digitale crepuscolare film del 2010, per ragioni diverse, non li sono più.
Iguana, basato su un romanzo erotico – marinaresco di Alberto Vázquez Figueroa, più che una rivisitazione in chiave adulta de La Bella e la Bestia è un dramma sadomasochista mascherato, nemmeno poi tanto, da film d’avventura. Un marinaio sfigurato dalla nascita e, per questo, oltraggiato e torturato dai suoi compagni, si rifugia in un’isola deserta e dichiara guerra al genere umano. Prima cattura e rende succubi tre naufraghi, poi rapisce una donna e, dopo averne ucciso il promesso sposo, ne fa la sua concubina in un rapporto padrone-schiava molto morboso. Nella trama troveranno posto anche una vendetta e un finale tragico ma quello che rende interessante questo film sono i dialoghi tra i due amanti, caratterizzati da una cruda e scabra sincerità. Ad esempio, nel primo discorso alla sua schiava Carmen, l’Iguana Oberlus dice: “Se terrai pulita l’abitazione e aprirai le gambe quando te lo ordinerò, ti garantisco una vita tranquilla, finché farai ciò che io voglio”. Il mostro non sembra dunque avere pretese molto diverse da quelle di un normale marito borghese, perlomeno del secolo scorso. Carmen, però, non è certo una donna remissiva. Hellman ce l’ha introdotta, parallelamente alla vicende di Iguana, come donna sensuale e manipolatrice. Quando crede di avere fatto innamorare Oberlus e di averlo alla sua mercé, così gli si rivolge: “Nel momento in cui smetti di comportarti come una bestia, ti fai acchiappare come un coniglio. E’ strano, all’improvviso mi ricordi tutti gli uomini deboli e patetici con cui sono stata. Mi possedevano, appartenevo a loro, ma vivevano sempre nel terrore che io li lasciassi in qualsiasi momento”.
Dov’è finito l’amore dei due film precedenti?
Come a chiusura di un ciclo creativo e, magari, sentimentale, ecco che Hellman ritorna al punto di partenza: all’impossibilità di un rapporto profondo tra i due sessi perché corrotto alla nascita dalla violenza della vita e dalle sue necessità. Il sole dell’amore ha riscaldato e illuso per un breve tratto i suoi personaggi ma il tramonto è sempre stato dietro l’angolo e il “male di vivere”, irrimediabile.
N.d.A.
Tranne che per l’ultimo siparietto su Iguana, dove ho sceneggiato una situazione reale narrata da Hellman stesso, ogni dialogo o commento del regista è una libera traduzione di quanto Brad Stevens ha trascritto e riportato nel ponderoso saggio Monte Hellman: His Life and Films.