Cary Grant non mi piace.
Non mi fa ridere, mi irrita.
Al contrario, amo James Stuart. L’impressione che dà di non ricordarsi le battute, l’apparente goffaggine, la strana gestualità, la postura leggermente ricurva, per me è l’antitesi di Cary Grant.
Eppure, mi imbatto in un film di Cukor interpretato da Cary Grant (Scandalo a Philadelphia), e magicamente, questo attore fastidioso diventa un interprete intelligente, capace di ritmo e raffinatezza.
Comincio a ricredermi, decido di riguardare un famoso film di Hawks interpretato da Cary Grant, (“La signora del Venerdì”, un remake di “The front page”, in cui si cimenterà anche Wilder più tardi). Stesso genere, stessa spigliatezza nel dialogo, stesso periodo, stessi meccanismi comici e sarcastici costruiti sul botta e risposta…ed ecco che qui torna ad essere il Cary Grant piacione ed irritante di prima, non solo, anche la stessa coprotagonista Rosalind Russel recita male, questione di piccoli gesti, eccessiva enfasi nelle espressioni, mimica da cliché.
Ritrovo Rosalind Russel in un altro classico di Cukor “Donne” ed è semplicemente straordinaria.
Che cosa succede nei film di Cukor?
Sceneggiatura migliore? Non direi, “La signora del Venerdì” è scritto bene, e la trovata di Hawks, che decide di cambiare sesso ad uno dei due protagonisti è intelligente.
Forse Cukor è un regista più abile? non saprei, direi anzi che tecnicamente Hawks è nettamente superiore, e i due se la giocano alla pari per quando riguarda stile, ritmo e verve.
Miglior alchimia tra gli attori? Non ne sono convinto.
Le vere ragioni che ho individuato sono due. Primo: la comicità grossolana di Hawks, fatta di elementi assurdi e uomini vestiti da donna non mi hai mai fatto ridere. Grande regista di noir, grandissimo regista di western, mediocre regista di commedie, o meglio, eccellente regista di screwball comedies classiche Hollywoodiane, che però io trovo estremamente noiose (fatta eccezione per quelle di Lubitsch).
La verità invece, piuttosto lampante, è che Cukor ha tirato fuori da Cary Grant qualcosa che gli altri non erano riusciti a mettere in risalto.
In fondo non era Cary Grant il problema, difficilmente un attore può essere ritenuto colpevole della sua inettitudine.
Era quello che il pubblico voleva da Cary Grant a rappresentare un problema. Ovvero quello che Hawks, regista sempre molto affine alla sensibilità del suo pubblico, ha tirato fuori da lui.
Nelle mani di Hitchcock, Cary Grant è un manichino inespressivo (ma Hitchcock sapeva cosa voleva). nelle mani di Hawks Cary Grant è un commediante di second’ordine. Nelle mani di Cukor Cary Grant è un genio.
Mi appresto a guardare e riguardare una serie di film diretti da Cukor, per verificare la mia teoria, e scopro incredibilmente che tutti gli attori dei film di Cukor sembrano sempre in stato di grazia. Il modo in cui recitano fa trasparire un’esaltazione che si riflette nella brillantezza del dialogo: la fantastica Judy Hollyday de “La ragazza del secolo” e “Nata ieri”, Katharin Hepburn in “Scandalo a Philadelphia”, “La costola di Adamo”, o nel più acerbo “Sylvia Scarlett” (in cui lei è comunque bravissima), Joan Crawford, Rosalind Russel, il magnifico tragico personaggio dell’attore in declino in “Pranzo alle otto”, interpretato con estrema classe da John Barrymore, lo stesso John Barrymore che si trasformerà in una becera parodia di sé stesso l’anno dopo, nell’insipida (ed amatissima) commedia “XX secolo” di Hawks.
Come spesso accade, nonostante pochi passi falsi, le opere più note di Cukor sono anche le meno interessanti. Il celebratissimo “E’ nata una stella” con Judy Garland è un film noioso e debole se confrontato con gli altri, privo di interesse se non quello estetico (scenografia e coreografie) ed archetipico. Per altro si tratta di un remake di un altro film sempre diretto da Cukor “A che prezzo Hollywood?” Molto più cupo ed interessante.
Tra tutti i suoi film che ho visto poi, due mi colpiscono particolarmente: “Pranzo alle Otto” e “Donne”. A proposito di “Donne”, forse il suo film più straordinario, mi accorgo di amare ogni singolo interprete, la Rosalind Russel dell’infelice “La signora del Venerdì” qui ricopre un ruolo meraviglioso. Perfida, cinica ed intelligente. Allo stesso modo, la fantastica Joan Crawford, in una riuscita caricatura della femme fatale.
Goffredo Fofi, in un suo commento, ribadisce quanto le donne siano pettegole e succubi al maschio in quel film, dicendo che le femministe di oggi lo guarderebbero con una certa condiscendenza. Il povero Fofi è caduto nell’equivoco più banale, vede nel film un interessante documento per rivelare la mentalità di un’epoca, ma gli sfugge completamente l’estrema emancipazione che si cela dietro a quelle unghie ben curate e a quei cappellini vistosi: nel film di Cukor le donne sono ovviamente soggiogate al mondo maschile, non esiste un altro modo di concepire l’esistenza. Ma è proprio questo il punto: l’aver capito perfettamente come manipolare il meccanismo dal di dentro, l‘aver assimilato la regle du jeu molto meglio delle loro controparti maschili, permette loro di trasformare un ambiente del quale sono succubi in qualcosa da poter dominare. Questa sofisticata arte della manipolazione, attraverso illazioni, frecciatine, Fofi, con grande acume, la chiama uno “spettegolare” in funzione del “maschio”.
Le donne, anche quelle all’antica, paiono tutte sicure dei loro mezzi, della loro capacità intellettuale, della loro abilita manipolatoria e della loro superiorità (a)morale, che si riflette in una profonda comprensione e pena nei confronti delle debolezze e dei limiti dell’uomo.
Sentite questo discorso che fa la madre della protagonista alla figlia, in cui viene descritta la natura degli uomini:
“Ascolta, cara, non è una cosa nuova: capita a molte mogli.
-Oh, ma Stefano…
-Stefano è un uomo, è sposato da dieci anni.
-Vuoi dire che è stanco di me?
-È stanco di sé stesso, stanco di provare gli stessi sentimenti. A un certo punto, un uomo cerca la sensazione nuova per sentirsi ancora giovane, proprio perché sta invecchiando.
-Mamma, Stefano non è vecchio!
-Certo che no, ma noi donne siamo più ragionevoli: quando siamo stanche di noi stesse cambiamo pettinatura, cambiamo amica, o trasformiamo la casa. Un uomo potrebbe rimettere a nuovo il suo ufficio, ma non pensa mai a una cosa simile: un uomo ha soltanto un modo per rinnovarsi, vedere un altro sé stesso negli occhi di un’altra donna.”
L’uomo, oggetto della stessa compassione che si può provare per un animale vittima dei suoi istinti.
Nel film di Cukor gli uomini non si vedono, ma si parla sempre di loro. L’impressione però è quella che si parli di pedine da orientare a piacimento, si parla di uomini come se si parlasse di cani, i veri giudizi sulle persone sono tutti rivolte alle donne, rivali od alleate che siano.
Anita Loos, che ha sceneggiato la commedia di Clare Boothe Luce, da cui è tratto il film, è un personaggio su cui ci sarebbe molto da dire: affermò all’epoca di essere furiosa con il movimento per la libertà delle donne. “Continuano ad salire su palchetti fatti di scatole di sapone e proclamano che le donne sono più brillanti degli uomini.” Disse. “È vero, ma non andrebbe sbandierato ai quattro venti o rovineranno l’intero racket.”
Una filosofia femminista di appropriazione e rivendicazione interiore, intellettuale, piuttosto che esteriore e di facciata, una visione profondamente moderna, che sa approfittare delle circostanze per poter prevalere. Anita Loos entrò in uno show business a predominanza maschile, e non si fece mai intimorire, sceneggiò “Donne” e moltissimi altri film, (tra cui “Intolerance” di Griffith) scrisse il romanzo “Gli uomini preferiscono le bionde” e fu un personaggio chiave nella sua modernità e completa estraneità alla mentalità dominante dell’epoca.
Ma tornando a “Donne”, Fofi continua nel suo travisamento identificando in Sylvia (Rosalinda Russell) la donna nei suoi aspetti più negativi, malvagia strega borgese che mette zizzania, mentre è proprio lei che rappresenta l’emancipazione vera, aprendo gli occhi all’ingenua Mary (Norma Shearer), la povera sottomessa ed ingenua, esempio di virtù conforme al modello patriarcale (tornerà con il marito dopo che questo l’ha lasciata per sposarsi un’altra, perché ha capito che lui la ama ancora). Il film qui mostra i suoi limiti, proprio nella parabola della protagonista, che incarna colei che tira fuori le unghie per riprendersi il marito che l’ha abbandonata per “la seduttrice”. Il marito viene subito perdonato (vittima inerme), il ricongiungimento della coppia rappresenta effettivamente un finale reazionario e il fallimento della vera modernità morale del film.
Faccio qualche altra ricerca per approfondire e mi imbatto in qualcosa che non avrei mai voluto vedere:
Eccolo lì, in tutto il suo splendore, scritto e diretto da Diane English, con Meg Ryan, Eva Mendez, Annette Bening e Giada Pinkett Smith, il remake in chiave moderna di “Donne”. Remake in chiave moderna, così lo chiamano, uscì nel 2008. Guardo il trailer, ed eccola lì la modernità della donna in chiave comica: gridoline isteriche, gaffe volgari, donne che ancheggiano, ridotte ad indossare lingerie provocanti per poter incarnare stereotipi sempre più sessisti. Nessuna traccia dell’eleganza maliziosa con cui si sfidavano le donne nel film di Cukor. Qui sì, ci sono le vere pettegole di cui parla Fofi, costrette al ruolo di donne in carriera, ottuse e squallide, quasi a loro agio nella loro mediocre infelicità.