Vorrei conoscere la Speaker della Mostra del Cinema di Venezia. Dopo tanti anni è diventata una voce talmente familiare che pare strano non associarla ad un viso. Le sue registrazioni anticipano l’inizio di ogni film e sono le stesse da tempo immemore ma, quest’anno, tutto tranne che sorprendentemente, la novità:
“Please, keep your face mask on also during the screening“
Questa insidiosa coda verbale, oltre a far trasparire un’ampiezza di frequenze e un calore sui bassi che solo le ultrasessantenni possono emettere, porta con sé la conseguenza che tutti alla vigilia della Mostra già temevamo: la mascherina si tiene sempre, nonostante il distanziamento. Il regolamento della Biennale prevede di indossarla anche in giardino e ovunque all’interno della cinta della cittadella del cinema. Sempre, tutto il giorno, senza pausa.
Dopo una manciata di ore e qualche boccata di troppo della propria anidride carbonica la mascherina toglie il fiato, sarà il buio o l’aria condizionata che va e viene, ma si empatizza con le vampate cross-menopausa delle cinquantenni.
L’unico momento per prendere una disperata boccata d’aria a pieni polmoni, lontano da tutti, è chiusi in bagno, peccato che i bagni della cittadella siano praticamente T.S.F.
Tutti Senza Finestra
Il tanto agognato ossigeno si trasforma in un inferno di cellule fecali fluttuanti ed effluvi d’urina che tempestano le pareti dei polmoni.
Dopo i primi giorni di maratona cinematografica rimane per forza di cose il concetto che, oggi, il Grande Cinema, questo drago bizzarro che ama nascondersi per essere trovato solo da chi lo brama davvero, si è inaspettatamente rifugiato nell’est europa. Altro che timori per l’industria della settimana praticamente ferma: la qualità della selezione di quest’anno è elevata, in due giorni ho visto ben tre gioielli, ed erano 15 anni che non mi capitava.
Mila (Apple) di C. Nikou è un film della nuova cinematografia greca, figlia del genio del primo Lanthimos. In un mondo vintage, tra polaroid e mestizia, le persone perdono la memoria repentinamente e senza preavviso, nasce cosi un programma di recupero in cui il medico-deus-ex-machina ordina ai pazienti le esperienze che devono vivere prima di poter essere reinseriti nella società.
Bella idea, alcune scene memoriabili, vagamente viscido e insidioso pecca in un finale (cioè nell’arma che dovrebbe essere la più affilata in un film misterioso come questo) frettoloso, vago e che lascia aperte troppe domande. Paraculo insomma.
Rimane tanto amore per il cinema, una narrazione delicata, tanto mestiere e una bella riflessione sulla triste prevedibilità della relazione di coppia. Conferma che ogni tentativo di cambiamento è superfluo.
Senza la popolarità di Lanthimos questo film non sarebbe mai esistito, perché oggi senza di lui non esisterebbe il cinema greco, ma gran bel valore aggiunto.
Da cafone patentato che sono, normalmente guardo i film sulla guerra con annoiato distacco. Mi fanno un po’ pena quelli che applaudono o si commuovono di fronte a storie drammatiche raccontate in fiction cinematograficamente risibili. Puoi avere un argomento serio, doloroso e importante quanto vuoi ma se lo metti in scena senza talento e senza competenza sei un mediocre che si merita i mediocri sui cui fa breccia. Insomma, se mi vuoi, devi fare una grande opera artistica. Ed è qui che arriva come un pugno al cervello il bellissimo Pohani Dorogy
(Bad Roads) di Natalya Vorozhbit. Più che un film di guerra è sulle mutazioni psicologiche e sociali di chi la guerra la vive, anche solo da lontano. Mette dentro tutti, non solo le bestie militari, ma anche l’innocenza violata dell’adolescenza, uomini per bene, contadini qualunque, tutti inesorabilmente corrotti dall’invincibile cervicale d’acciaio della guerra.
La guerra, prima ancora di manifestare le sue oscenità osservabili cresce dentro alle persone.
Mi ha convinto dell’idea che l’orrore della guerra non è quello che succede fuori ma quello che consuma dentro.
Al sicuro di una sala, nella culla del wellfare, ho avuto paura.
Grazie.
Come ciliegina sopra questa succulente torta inaspettatamente precoce c’è il Re di questi primi giorni di Mostra: la meraviglia psicotica tra zanzare e metafisica che risponde al nome di Mosquito State di F. Rymsza. È un film ossessivo compulsivo, visionario e filosofico, l’ho adorato. È uno di quei casi in cui leggere la sinossi non ha alcun senso, perché blaterava di finanza e Wall Street, quando è un viaggio autodistruttivo alla scoperta del Nirvana, molto più simile a Pi Greco del primo Aronofsky che allo scoppiettante The Wolf of Wall Street di Scorsese.
Vince anche il prestigioso premio Cricchetta GS per la colonna sonora: ha dei prezzi elettronici incredibili, i bassi mi hanno praticamente sollevato dalla poltrona.
Lo metto come Campione Temporaneo, pur non in concorso ufficiale, difficilissimo da superare.
Sarà l’intossicazione ematica da anidride carbonica e gas intestinali, l’assenza di coda al bar, le sale piene al più al 40%, un tappeto rosso ai minimi termini, quasi nessun ospite in sala o che dopo i quarant’anni gli occhi vedono un mondo velato/bidimensionale ma quest’anno non si gode l’emozione del Grande Evento. Un po’ mi manca, ma finalmente si è tutti qui solo per i film.
Rimango fermo dell’idea che la Biennale, aprendo le porte della Sala Grande anche quest’anno, abbia avuto un coraggio meritevole di stima e ammirazione, unico in tutto il panorama dei Grandi Festival. Affronta l’emergenza in corso con una gestione, da sempre suo tallone d’Achille, insperata anche solo fino ad un anno fa.