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#Venezia77 – Miss Thunberg vs. Miss Marx

di il 10/09/2020
 

Seppur dopo essersi leccata qualche ferita per il gran rifiuto® subìto in prima battuta, sicuramente dovuto a dita maldestre di qualche stagista della Biennale, anche in questo innominabile 2020 la Cricchetta del cinemino siede, vede, beve e provvede.

La 77esima edizione della Mostra si distingue da subito per numero di assenze: assenza dei nostri amichetti di cynar&recensione, assenza delle code per le proiezioni, assenza della frustrazione da rimbalzo per posti esauriti in sala e soprattutto assenza di ossigeno durante i film che superano le due ore. Tra le poche presenze offerte in compensazione dal Lido, degne di nota sono quella di una meravigliosa mendicante moldava che canta a voce spiegata davanti al palazzo del Casinò e quella del cinema esteuropeo in programma: per me è più che abbastanza.

Mi metto a spulciare tutta la casella delle e-mail in arrivo per trovare la conferma della prenotazione online del posto in sala (prima grossa novità del 2020), la trovo quando ormai è già squillata la seconda campanella. Esibisco fiera lo schermo del mio smartphone e mi dicono che è sufficiente mostrare il badge.
Il tesserino quest’anno è mutato cromaticamente dal giallo al blu (seconda grossa novità del 2020) ed è dotato di un potentissimo microchip che localizza la poltrona a te assegnata facendola illuminare ad intermittenza nel buio della sala; mentre se le luci sono ancora accese la sedia vibra e riproduce il Valzer n°2 di Shostakovich finché il portatore di badge associato non ci poggia sopra entrambi i glutei. Il progetto è stato attuato grazie ai fondi europei stanziati per i paesi non troppo sviluppati. L’unico problema riscontrato è che quando gli spettatori sono più di uno ed entrano in sala in momenti ravvicinati, le corrispondenti poltrone si accendono tutte insieme, diventando indistinguibili l’una dall’altra. Ci stanno lavorando, nel frattempo hanno affidato alle maschere anche il compito di indicare allo spettatore la giusta seduta (da non cambiare per nessun motivo per tutta la durata del film, terza novità del 2020).

GRETA di Nathan Grossman è stato il mio modo impegnato per aprire la Mostra. Ero prontissima a piangere per gli orsi bianchi e affamati del Polo Nord, invece questo documentario fuori concorso mi ha insegnato molte più cose sull’ossessione clinicamente diagnosticata che sul cambiamento climatico. Malgrado quanto auspicato dalla stessa Greta Thunberg, il film mette al centro della narrazione proprio l’ex sedicenne svedese, con il suo corredo di Sindrome di Asperger, trecce spettinate, papà premuroso e amore per i cani. Mentre ci sfilano davanti le immagini degli inviti ai vari palazzi di cristallo che hanno reso Greta quello che oggi è, (paladina del green wash, meme di fb, burattino in mano ai poteri forti, bersaglio di bullismo presidenziale che dir si voglia) percepiamo il grande disagio di chi si sente in dovere di fare qualcosa che non ha assolutamente voglia di fare. Concedere selfie, stringere mani (quando ancora non era considerato un atto terroristico), sforzarsi in dialoghi di circostanza: la grande responsabilità che Greta si è accollata le impone di adattarsi ai rituali di un mondo estraneo che non ha nessuna intenzione di farsi scalfire. I milioni di hashtag provenienti da tutto il mondo non riescono a sopire in lei la frustrazione derivante dalla chiara percezione dell’ipocrisia e dell’opportunismo dei destinatari dei suoi messaggi. Greta sente troppo e per non sentire più urla sempre più forte. Il film mi fa sentire stanchissima, ma mi conferma che l’unico modo per guarire da un’ossessione è dedicarsene, fino all’esaurimento (dell’ossessione o di chi la coltiva).

Le femmine vanno forti quest’anno alla Mostra, lo dicono tutti i giornali.
Anche MISS MARX di Susanna Nicchiarelli vuole parlare di una donna e del messaggio sociopolitico di cui si fa portatrice. Ma la Nicchiarelli non vuole mica fare la solita pappardella pedagogica che proiettano solo ai cineforum estivi dei circoli ARCI, giammai! Vorrebbe farlo in modo poco canonico, vorrebbe rompere, sperimentare. Magari, chessò, chiamando qualche personaggio col nome di un filosofo studiato a ridosso della maturità dai liceali in sala e mostrarne il lato discusso, controverso. O magari facendo recitare dei brani de “Il Capitale” dritto negli occhi dei compagni fra il pubblico, per farne sussultare gli animi proletari. Oppure – senti qua che ideona – interrompendo la narrazione con dei brani punk uniti ad immagini di repertorio! F I G A T A ! Peccato che, per presentare un prodotto cinematografico, anche le idee più cool si devono necessariamente trasformare in un film, e nello specifico in un film che si riesca a guardare. Purtroppo io sono dovuta uscire a tre quarti della proiezione, trovando insopportabilmente evidente che tutti gli orpelli sopra citati servissero solo a svegliare lo spettatore stordito dall’ennesimo, noiosissimo e patetico dramma pseudofamiliare. In un misto tra delusione e indignazione, non sapevo però che qualcosa di lì a poco mi avrebbe fatto ancora più male: le 4 stelline assegnate al film dai critici del Manifesto.

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