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#FEFF23 – Time di Ricky Ko

di il 14/07/2021
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Facile fare un film mostrando efebi gangster della yakuza al massimo della forma mentre saltano dai balconi a petto nudo per scappare dalla banda rivale. Poi tanto la storia finisce con un adrenalinico scontro finale e il regista se ne torna a casa a mangiare pastina in brodo, gli spettatori escono dal cinema eccitati e pace fatta con la coscienza. A me non basta, e mica è una questione di genere: nelle storie per bambini il principe bacia la principessa, il quarterback si fidanza con la cheerleader e il leoncino diventa Rè: Ok, ma dopo? I baci non durano in eterno, le tette alle donne cadono dopo i trenta e agli uomini crescono sui cinquanta, le giornate diventano una noiosa routine anche a castello e pure ai mariuoli col coltellino viene l’artrosi alle rotule. Magari Lupin III, a sessantacinque anni, si è perforato un timpano e ha passato il resto della vita in pigiama torcendo il collo per sentire i brontolamenti di Fujiko, rovinandosi le cervicali, ma non lo sapremo mai. Quello che succede dopo la Grande Avventura® non lo vogliamo proprio raccontare? Spaventa? Favorirebbe suicidi di massa tra i giovani o l’approvazione della sacrosanta legge per l’eutanasia a 40 anni? I ragazzi userebbero troppo bene il poco tempo a loro concesso? Boh, non si sa, ma di sicuro non è un problema per Ricky Ko.

Time all’inizio spiazza, sembra un Mash-up tra quel meraviglioso tamarro di Black Dynamite, Bud Spencer e la sposa di Kill Bill, musica anni ’70 compresa. Una coppia di figoni con ciuffo sbarazzino e sedere a mandolino rovinano di calci e tagliano gole come non ci fosse un domani. Se ne escono dalla scena tra fuochi d’artificio, coi volti illuminati di uno splendore ultraterreno: il classico finale, insomma, quello di tutti i film del mondo. Time però non si accoda, alza la cervicale di cemento quando gli altri abbassano la copertina a scacchi sulle ginocchia.

Nel momento in cui i cazzotti si fermano e della musica resta solo un ricordo, partono i titoli di testa. Da li in poi si viene coperti di rughe, falangi infiammate, obesità, ematomi, alopecia, vene varicose, palpebre cadenti, grinze tremolanti, zampe di gallina, cataratte appannate, bitorzoli sottopelle, peli canuti, cardiopatie mal curate, presbiopie, pillole betabloccanti, sciatiche, prostatite, borsite, abbandono, ingratitudine, irriconoscenza, derisione, povertà, depressione e delusione. La vita insomma, dopo la fine del sogno, dopo il risveglio di Biancaneve.

La trama, nella più totale linearità con la tradizione di ogni Far East Film Festival che si rispetti, è tenerona® e non riserva grandi sorprese. Sempre che la storia di un gruppo di spietati killer anziani dal kuore® tenero si possa definire banale. Il film vive di piccoli momenti e colpisce principalmente per la caratterizzazione dei personaggi nel loro goffo e serissimo tentativo di rivivere il passato. Tutto già visto, niente di rivoluzionario, intendiamoci: Clint Eastwood in Gran Torino è più fico di Patrick Tse in questo Time, ma è un insieme di ingredienti accuratamente selezionato che funziona, diverte e alla fine lascia pure vagamente felici. Mi si perdoni il termine.
Forse è solo tutto nella mia mente e semplicemente, invecchiando, ho iniziato ad empatizzare con gli eroi della terza età:

mi spiace rovinare la sorpresa ai marcantoni di vent’anni che hanno il mondo ai loro piedi ma, alla fine, anche voi sarete destinati, nel migliore dei casi, a diventare dei Nonni Paletta. Nel peggiore dei casi potreste ritrovarvi nella villa in collina, con pareti di vetro e vista sul bosco, a pagare un sicario di ottant’anni che vi squarci le carotidi, più soli di un cane in autostrada.


Il vero inferno, però, è riservato a chi, con gli anni, diventa nostalgico.

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