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Happy Game di Amanita Design – Quel sorriso. Quel maledetto sorriso

di il 01/11/2021
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AFORISMA
 

"Happy Game” è il prodotto perfetto per approcciarsi al videogioco inteso come ricerca interiore e sperimentazione, pur senza sacrificare in toto l’idea di “divertimento"

 

Amanita Design è uno studio poliedrico che nel corso degli anni ha sperimentato con i generi videoludici e i relativi approcci al game design, fungendo da medium per le visioni artistiche più disparate, ma che non ha mai perso la propria impronta caratteristica: quelle dello studio Ceco sono opere di alto artigianato, rifinite e cesellate con cura certosina, che spesso sacrificano le velleità cinematografiche proprie di realtà più commerciali al fine di favorire una narrazione trasversale, viscerale, quasi materica (per quanto si possa parlare di “materia” nel contesto elusivo di una cornice luminosa) e incoraggiare un avvicinamento partecipe del giocatore attraverso un impianto audiovisivo tanto familiare quanto alieno.
Dopo la parentesi ultra descrittiva di “Creaks”, il fondatore Jakub Dvorsky torna al minimalismo di Chuchel e Botanicula, deviando ancora una volta dal percorso segnato per proporre qualcosa di diverso: un gioco horror.

Come ben sa chi bazzica questo genere, esistono tante tipologie di horror quante sono le varianti dell’heavy metal tradizionale, e solitamente le più interessanti mascherano la volontà di indagare un fenomeno storico e sociale, un costrutto culturale, o magari un trauma sepolto nel pozzo nero della psiche.
Nel caso di “Happy Game” – il cui protagonista è un bambino di circa sei anni – i traumi (la perdita del giocattolo preferito, i primi episodi di bullismo, la scomparsa di un fedele animale domestico) non sono che un pretesto per raccontare qualcosa di più alto tramite lo stratagemma dell’incubo, un tortuoso viaggio dentro la notte che sembra non avere fine. E questo, ci preme sottolinearlo, con l’umiltà di cui sono capaci soltanto i grandi.
“Happy Game”, innanzitutto, riformula silenziosamente una delle grandi domande filosofiche: “chi sono?”
E lo fa mutandola in: “Chi è il giocatore?”
Ovvero: chi interpretiamo veramente?

Il gioco è una classica avventura punta e clicca, caratterizzato da controlli estremamente basilari eppure dotati di una loro plasticità: nel corso degli incubi ci viene richiesto di tirare, spingere, sollevare, ruotare, deformare, svitare, distruggere, in una spirale che assottiglia sempre più il confine tra creatività e interazione.
Eppure risulta chiaro fin da subito che noi non interpretiamo il bambino protagonista: perfino quando lo facciamo muovere in avanti – o meglio, lo trasciniamo in avanti, quasi conducendolo per mano – il gioco sembra suggerire che giocatore umano e personaggio fittizio siano due entità separate.
Di certo non è il bambino a svellere oggetti contundenti dalle protuberanze organiche in cui ci imbattiamo man mano che l’incubo si evolve, per poi consegnarli nelle innocenti mani… del protagonista, appunto.
E di certo non è il bambino, che pare smarrirsi all’interno di scenografie sempre più allucinate unicamente per subire (un martirio o una trasformazione?), ad architettare piani via via più elaborati che prevedono la disposizione di coniglietti “esca” che distraggano un famelico predatore.
C’è una figura ricorrente in “Happy Game”, uno smiley fluttuante che risplende a illuminare il cammino del protagonista con il suo chiarore totalizzante e dispotico. Che sia lui il personaggio segretamente interpretato dal giocatore? Se così fosse, l’ordalia del bambino acquisirebbe un significato diverso, psicanalitico e non banalmente orrifico: il cammino del nostro non è una fuga dalle cose che lo spaventano, né un’allegorica autoflagellazione, ma un percorso di metamorfosi. Un rituale di ridefinizione dell’Io attraverso cui lo smiley, che a questo punto faremmo prima a chiamare Es, aggredisce e rielabora le angosce del piccolo, forzandone la crescita e la maturazione. Ma, come ci insegna il finale, ogni cambiamento comporta un sacrificio, e ogni ricompensa prevede una rinuncia – la felicità, in questo senso, non fa eccezione.
A tal proposito, sarebbe erroneo catalogare il titolo come un generico body horror, giacché le numerose trasfigurazioni a cui va incontro il protagonista, gli scambi di corpo, gli smembramenti e la destrutturazione della sua identità cosciente – oltre che fisica – rimandano ad una tipologia di terrore prettamente esistenziale, dove l’elemento più disturbante è rappresentato dalla disperata ricerca di un’identità che non ci appartiene più (difficile, pertanto, non tracciare dei paralleli con il “Soma” di Frictional Games).

“Happy Game” è un gioco “di ruolo” nel senso meno intuitivo del termine, dove la linea che separa la vittima dal carnefice è spesso sfumata e la logica onirica appare non priva di un suo particolarissimo senso dell’umorismo (ne è la prova il fatto che il bambino strilli quando si trova in pericolo, ma non batta ciglio e sembri quasi perplesso se ad essere trucidate di fronte ai suoi occhi sono altre creaturine indifese).
Artisticamente lo definiremmo un crescendo: pur nella sua brevità, passa da suggestioni alquanto generiche – se non addirittura inflazionate – a simbologie astratte di grande potenza evocativa, accentuate ancor di più da cromatismi volutamente stridenti. Si tratta di un traguardo non da poco, tenendo comunque presente che la durata esigua ne valorizza il fattore shock, al contrario di altri titoli da dieci ore che in prossimità della conclusione si ritrovano – esteticamente e narrativamente – col fiato corto.
Un plauso va fatto anche al lavoro sul sonoro, che parla un linguaggio universale e insieme straniante – un meraviglioso ossimoro – e alle melodie del gruppo Ceco DVA, capaci di rendere anomale persino le (rarissime) parentesi idilliache.
Volendo trovargli un difetto, talvolta lo stile artistico “ricade” nel pur splendido character design comico grottesco che delineava le precedenti produzioni Amanita, aprendo delle parentesi d’incoerenza visiva che sbilanciano l’atmosfera surreale ed espressionista.

“Happy Game” è il prodotto perfetto per approcciarsi al videogioco inteso come ricerca interiore e sperimentazione, pur senza sacrificare in toto l’idea di “divertimento”.
Non è tuttavia consigliabile a chi mal sopporta la vista del sangue, aborrisce le risposte sfumate e soffre di epilessia.

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