Mi è ormai chiaro che il criterio principale, per la selezione delle sceneggiature del Festival, è che queste siano legate a una problematica o un aspetto della società filippina che meritano essere portati all’attenzione del pubblico o sottoposti a critica.
The Hearing, di Lawrence Fajardo, unisce la denuncia delle difficoltà di comunicazione che incontra un bambino povero, affetto da sordità, con il tema degli abusi su minori perpetrata da orchi educatori, siano preti, come in questo, caso o altro. Ciò che accade al povero Lucas (Enzo Osorio), infatti, non è solo la violenza carnale ad opera di Padre Mejor (Rom Factolerin), l’influente prete del villaggio di pescatori dove vive, ma anche la difficoltà oggettiva a raccontare l’accaduto nell’aula di tribunale a causa della mancanza di interpreti adeguati per il suo linguaggio dei segni poco evoluto. Con grande disagio ma anche tanto coraggio e supporto dei suoi genitori, il ragazzo riuscirà a esemplificare nel codice tecnico della giustizia il crimine subito ma, probabilmente, non in modo sufficiente a far condannare il suo violentatore.
Questo film, a differenza degli altri due recensiti nei giorni scorsi, non è opera di un esordiente. Lawrence Fajardo ha all’attivo più di una ventina di titoli ed è, attualmente, uno dei due principali registi di una serie TV di grande successo. Il suo indubbio talento si manifesta in alcune felici scelte stilistiche: l’uso di un opaco rumore di fondo quando la telecamera interpreta il punto di vista del bambino, il tono neutro della narrazione, che rende la normalità del crimine ancora più agghiacciante. Purtroppo, però, a causa di una sceneggiatura confusa (il racconto dell’infelicità coniugale dell’interprete totalmente inutile, la scarsa educazione al linguaggio dei segni del ragazzo non adeguatamente spiegata) e a scenografia e costumi poco realistici, uno spaesante senso di posticcio s’insinua da subito nello spettatore e mina il potenziale drammatico della storia. Anche l’uso continuo e inutile di suoni inquietanti, nelle scene che lo sono già di per sé, non giova. Se si pensa che il suo film forse più riuscito, il potente Amok, faceva del realismo dell’ambiente e dei costumi il suo punto di forza, sorprende davvero questo cambio di registro. Sospetto che i contemporanei impegni televisivi del regista ci abbiano qualcosa a che fare.
Al termine del film, prima dei titoli di coda, compare una scritta a informarci che circa il 70% dei bambini sordi è vittima di abusi nelle Filippine, indipendentemente dal genere. Una percentuale spaventosamente alta (anche se mi chiedo come possano averla calcolata). Anche questa volta l’utilità sociale dell’opera appare evidente, indipendentemente dalle sue qualità artistiche. Come ha dichiarato l’autore, l’intento è di stimolare una riflessione sulla necessità di cambiare e migliorare il sistema educativo nelle Filippine, nonché le leggi e il sistema giudiziario, il cui fine, in un mondo ideale che, purtroppo, non esiste da nessuna parte, dovrebbe essere quello di proteggere e servire tutti, specialmente i più vulnerabili.
Termina così questa breve incursione nel Cinemalaya Indipendent Film Festival di quest’anno.
Con mia grande soddisfazione, la giuria ha assegnato ben quattro premi a Tumandok: miglior lungometraggio, migliore sceneggiatura, miglior attore non protagonista (e non professionista Felipe Ganancial), migliore musica originale.
Con altrettanta soddisfazione Love Child, la storia di due genitori che lottano contro un mondo ostile per crescere il loro figlio autistico e che io, per principio, mi sono rifiutato di guardare, non ne ha ottenuto nessuno, benché giudicato da tutti come il migliore del Festival.
Vorrei una giuria simile anche a Venezia o Cannes.