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Metro Manila Film Festival – 50° edizione (seconda e ultima parte)

di il 02/02/2025
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Cari affezionati e smaniosi novantanove lettori, ecco finalmente chi avrei premiato al MMFF se, come sarebbe giusto, mi avessero nominato Gran Critico Universale della Cinematografia Mondiale con potere di veto.

Al terzo posto il dramma carcerario Green bones diretto da Zig Dulay.

Prima parte: In una colonia carceraria modello, sita su un isola dove i detenuti lavorano e godono di una relativa libertà, arriva la guardia carceraria Xavier Gonzaga (l’inspiegabilmente premiato Ruru Madrid). L’agente sta ancora elaborando il lutto per la morte della sorella assassinata da uno sconosciuto e trova nel detenuto Dom (il bravo Dannis Trillo, meritato vincitore del premio come miglior attore protagonista), il criminale cui far pagare il proprio dolore. Seconda parte: Dom, anche se piccolo delinquente, è stato condannato ingiustamente, le guardie che credevamo buone sono in realtà dei criminali, Xavier, venuto a conoscenza delle patetiche sfortune del suo perseguitato, diventa il protettore della di lui famiglia maturando come sbirro e come uomo.

Il film è stato premiato come il migliore, dalla giuria del Festival e, effettivamente, come prodotto è il più ineccepibile: sceneggiatura solida, buona regia, fotografia premiata, interpreti in parte. E allora, si chiederanno i più accorti, perché assegnargli solo il terzo posto?

In realtà ero indeciso se metterlo addirittura al quarto e la regione è semplice: è un film ruffiano. Prodotto dalla stazione televisiva GMA (che sarebbe come da noi RAI 1) è stato sapientemente costruito a tavolino dallo stesso team che lo scorso anno aveva vinto con Firefly utilizzando gli stessi elementi: una storia patetica, un bambino che suscita buoni sentimenti (qui è la nipote sordomuta di Dom), la mamma morta, una finta problematica sociale (le carceri dovrebbero punire o rieducare?), il lieto fine che stempera il dramma. Un film per famiglie, insomma, ben fatto, rassicurante, ma che si dimentica completamente appena fatto un passo fuori dal cinema e che rientra nel pentolone “oppio del popolo filippino”, insieme al karaoke.

Al secondo posto un film forse poco adatto al clima natalizio ma che mantiene ciò che promette: l’action movie ultraviolento Topakk (Triggered) di Richard Somes.

Vergara (Arjo Atayde), un ex-ufficiale delle forze speciali dell’esercito affetto da stress post-traumatico (PTSD: una sindrome divenuta famosa in questi tempi perché molti poveri soldati israeliani, dopo aver sterminato migliaia di bambini palestinesi, sembrano soffrirne) è assunto come guardiano notturno in una vecchia acciaieria in disuso. Qui, in una notte letteralmente buia e tempestosa, tenterà di salvare la vita di due piccoli spacciatori, fratello e sorella, braccati da uno squadrone della morte di poliziotti corrotti che lavorano per un cartello della droga.

Il film parte di corsa con il massacro nella giungla della squadra di Vergara ad opera di feroci guerriglieri ribelli e la morte del suo migliore amico. Prosegue con la dettagliata carneficina, in un palazzo di tre piani, di tutti gli spacciatori e produttori di droga per mano della squadra di poliziotti corrotti. Si conclude nell’ex acciaieria con il nostro proto Rambo che ammazza, con armi da fuoco, bianche e improprie, tutto quanto si muove.

Il film è realizzato con cura. La location, con la sua ruggine, sporcizia, vecchi macchinari (tra cui una sega circolare funzionante, per chi vuole intendere) è ideale. Il regista, uno specialista del genere, sa come coreografare sia le sparatorie, sia i combattimenti corpo a corpo, mantenendo sempre alti ritmo e tensione. Le storie personali del protagonista, dei fratelli e del capo dei poliziotti corrotti coinvolgono quanto basta per farci appassionare alla loro sorte.

Certo, come in tutti film di questo tipo, non ci si devono aspettare realismo e verosimiglianza: i combattimenti corpo a corpo durano una vita, le ferite fanno male subito ma poi si dimenticano, una ragazza qualsiasi pesta grossi poliziotti addestrati, ecc. Tutto già visto e in linea con il genere, ma i suoi amanti, sempre alla ricerca di un po’ di sana violenza che consoli le loro vite ordinarie, troveranno pane per i loro denti.

Contrariamente a quanto premesso nella prima parte di questa cronaca, Topakk finirà presto in qualche piattaforma streaming in versione non censurata e, quindi, ancora con più sangue, ammazzi ed efferatezze.

Udite, udite: il mio vincitore del Metro Manila Film Festival è Espantaho (Spaventapasseri) del veterano Chito S. Roño.

Monet (Judy Ann Santos, premiata come miglior attrice protagonista) e sua madre Rosa (Lorna Tolentino) sono in lutto per la morte di Pabling, patriarca della famiglia e proprietario della fattoria dove vivono. I proventi ricavati dalla vendita del riso erano sempre stati sufficienti per garantire loro una vita dignitosa ma adesso, a causa di una siccità, per sopravvivere Monet ha dovuto mettere in piedi una piccola impresa, comprando e vendendo oggetti d’antiquariato.

Dopo la sepoltura, la moglie legale di Pabling, Adele (Chanda Romero), arriva con i suoi figli per reclamare la proprietà terriera. Mentre vengono fatti accordi durante i nove giorni di pasiyam (la tradizionale e lunga veglia filippina per il defunto, dove è uso servire cibo e bevande ai partecipanti), orrifiche presenze, misteriose sparizioni e una tela sinistra sembrano maledire la cerimonia. Monet, Rosa e Adele dovranno affrontare traumi del passato e un male soprannaturale per salvare le loro famiglie.

Tre sono gli elementi che fanno di questo film il mio preferito:

  • la narrazione solida e tradizionale di Chito S. Roño. Il regista è uno specialista del genere, ne conosce i meccanismi come un pittore i colori, sa come e dove dosare terrore e attesa, eccelle nel rendere naturale l’irrompere del soprannaturale.
  • la sceneggiatura del sempre geniale Chris Martinez, costruita a strati, dove l’horror puro, ma senza una goccia di sangue, è quello più superficiale e dove il supernaturale, il dramma famigliare e un sottile umorismo si intrecciano con rara raffinatezza.
  • il trio di attrici sopra citate sulle quali grava tutto il peso dello strato drammatico e, quindi, della credibilità della storia, alle quali si aggiunge il cameo di Eugene Domingo. Saranno loro a svelare il mistero che si cela dietro la tela maledetta e l’oscuro complotto di cui è strumento.

Senza molta sorpresa, il pubblico non ha tributato a questo lavoro il successo che avrebbe meritato. Troppo atipico e originale. Così come la giuria del Festival, che è stata capace di premiarne solo l’ottima prova di Judy Ann Santos. Nemo propheta in patria, recitano i Vangeli. Mi auguro che il  Fantasporto, dove Espantaho è in concorso, saprà tributargli il giusto riconoscimento.

Le ultime vestigia dell’intrattenimento popolare pretecnologico, quello che si radicava nelle fiabe e nel folklore e che veniva rielaborato, arricchito, adattato dai cantastorie di famiglia o di paese sono, oggi, i film di genere. Lasciarli in balia dell’ormai stantia industria americana e dei suoi stilemi, significa sterilizzarli dalla fantasia, l’unico ingrediente che fa della settima arte un’esperienza che merita ancora di essere vissuta.

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