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Venezia 71 – Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence) di Roy Andersson

di il 20/02/2015
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AFORISMA
 

Sono contento che ve la passiate bene

 

Mi piacciono i film freak. Data quasi per scontata, ormai, l’impossibilità di raccontare tradizionalmente in modo interessante, l’ultima spiaggia dello speranzoso innamorato di cinema sono proprio i mostri: oggetti ingombranti, spesso scalcinati, che cercano strade narrative sghembe.

Il cinema di Roy Andersson s’inserisce in questo filone. Dopo Songs for the second floor e You, the living, A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence conclude, pare, una trilogia in cui lo sguardo originale del primo capitolo trasmigra in diminuendo nei successivi.

Ecco di nuovo i siparietti più o meno collegati, ecco la camera fissa, ecco la fotografia pallida come il sole di Göteborg, dove sono ambientate le storie, ecco i personaggi squallidi perché umani, perché infilati in binari che sanno di assurdo, ecco qualche tentativo di freddo umorismo, ecco le scene surreali.

Non c’è una storia, nel riflessivo piccione. Ci sono due tristi compari, venditori di antidiluviani scherzi di carnevale, cui sono riservati il maggior numero di ‘quadri’ di cui si compone il film. Ci sono altre situazioni ricorrenti: una focosa e formosa insegnante di danza, Carlo XII di Svezia e la sua corte in un bar e, quasi ossessivo, il mantra dei convenevoli borghesi: “sono contento che ve la passiate bene”.

I riferimenti iconici e cinematografici si sprecano: dal dichiarato Bruegel il Vecchio alla staticità estetica dei quadri di Hopper; dal surrealismo caustico antiborghese del tardo Buñuel agli eroi sfigati di Kaurismaki. Si cercano riferimenti, s’inquadra l’oggetto nella filmografia e nell’ambiente. Su tutto impera una non originale e molto nordica visione, malinconica e impotente, sul significato della vita e la sua incorreggibile contraddizione tra senso dell’assoluto (il distacco del piccione che osserva) e miseria del quotidiano (il non riuscire a vivere vendendo oggetti che danno buonumore).

MI piacciono i film freak ma questo, in fondo, non lo è davvero. Questo è un film ‘d’autore’. Un autore approvato prima dai patentatori ufficiali, il festival di Cannes, e contro bollato ora dall’amico \ rivale veneziano. Manca il fastidio, la molestia che il film freak deve portare con sé (ad esempio, il meraviglioso documentario Im Keller di Seidl, ovviamente non in concorso e nemmeno premiato), manca lo stupore e manca, soprattutto, la capacità di interessare, di attrarre fino alla fine lo spettatore. Se si decide di comporre un film in stanze, non ci si può permettere la fuffa. Alla seconda o terza in cui non succede niente d’interessante o significativo è inevitabile il distacco e viene voglia di avere il tasto di avanzamento veloce o il salta capitolo.

Certo, nella mediocrità della selezione veneziana di quest’anno, anche un ‘autore’ minore come Andersson, brilla come ottone lucido. L’oro è altrove, però, e anche l’argento.

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