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Annabelle di John R. Leonetti

di il 16/11/2014
MI PIACE

Ascensore in cantina, disegni sulle scale, diavolone nero nero nerissimo.
Suggestioni polanskiane.

NON MI PIACE

Sceneggiatura&Cast

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IL MIO VOTO


AFORISMA
 

Questo è il gioco: spegnere il cervello, raggirare o raggirarsi.
Michele Arienti

 

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Annabelle dovrebbe essere quello che in cinegergo anglofono viene definito prequel e cioè una storia che spiega gli antefatti di un’altra storia, oppure, meglio in questo caso, spin-off  tradotto spesso con lo spocchioso ‘derivativo’, termine molto caro ai giovani germogli di Ghezzi ® – neologismo sintattico coniato dal Nostro cricchettaro Tanaka che a breve troverete su tutti i dizionari italiani, Accademia della Crusca compresa -,  ossia la storia di un pezzo di un altro film, qui dell’ultima inquadratura di The Conjuring di James Wan: i coniugi acchiappafantasmi tenevano sottovetro, nel salotto buono, una orripilante bambola di porcellana dal ghigno a dir poco inquietante. Ecco, il film diretto da John R. Leonetti è la storia di ‘sta bambola che, comunque, non si chiama Annabelle.

Chi ha visto il film di Wan moriva dalla curiosità di sapere vita morte e miracoli del malefico pezzo da museo nevvero?  Vabbé, passiamo oltre. Alle istruzioni per l’uso. Alle avvertenze. Una sola: chi ha intenzione di vedere Annabelle deve munirsi di un interruttore on/off collegato alla propria materia grigia, ché, come dice in aforisma il Nostro cricchettaro Arienti –  s’incazza un po’ quando lo cito ma poi riconosce che lo faccio sempre nel merito – ci vuole una buona dose di autoraggiro.

Fatto questo, il film è uno spasso.

Non ascoltate chi, in giro sul web, vi dirà che ’sto film fa schifo perché  Wan, qui solo in veste di produttore, lo ha lasciato girare allo sconosciuto e sfigato Leonetti. No. Questa pellicola diverte di gusto ed ha, al suo interno, almeno tre sequenze gustosissime e una da reale salto sulla sedia.

Si ride di pancia nel vedere i personaggi guardare con aria lirica ed estasiata, esclamando qualcosa come “bellissima, la cercavo da sempre…” ,  ‘sta bambola orrenda, alta come una bambina di cinque anni e con la faccia di un Michael Jackson all’ennesima rabberciatura plastica scappato dal braccio della morte di Alcatraz o nel cogliere certi passaggi insensati della trama, come quando, ad esempio, la bambola, che ne combina una più di Bertoldo e ad un certo punto viene gettata nella spazzatura, dopo varie peripezie, ultime un incendio e conseguente cambio di residenza, viene ritrovata nella nuova abitazione e la neo mammina la ripone ancora (!) sulla mensola della camera della pargoletta come nulla fosse accaduto.

La parte debole del film, quindi, è la sceneggiatura assai trita, con passaggi illogici, spiegone demoniaco che lascia il tempo che trova  e un Morgan Freeman in gonnella, ma il regista non è quella schiappa che qualcuno vuol far credere. Il regista è bravo. La sequenza dell’ascensore al piano interrato è magistrale, ed è il solo pezzo di cinema che ricordo ancora con godimento dei tanti film visti negli ultimi mesi. Ci sono anche, a parte i soliti cliché horror comunque riusciti,  una bella ripresa ansiogena (il ritrovamento dei disegni sulle scale) e un buon diavolone nero e cornuto ripreso in primo piano.

M’avvedo che non ho detto nulla della trama (sinossi in gergo germoghezziano) perché conta poco, ma è presto fatto: una giovane coppia entra in possesso di una bambolona malefica per colpa del marito scemo. Lei è incinta e veste con colori pastello. Si chiama Mia, come la Farrow di Rosmary’s Baby di Roman Polanski altrettanto incinta in atmosfera demoniaca. E questa non è la sola suggestione polanskiana, perché c’è qualcosa negli antri, androni, scale e corridoi della seconda abitazione che ricorda l’altro suo capolavoro, ovvero L’inquilino del terzo piano.

Sentite suggestioni in regia che a me bastano, insieme al divertimento assicurato e a qualche sequenza inquietante ben assestata, per consigliarne la visione. Magari casalinga e collettiva.

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