Berlinale 65 – Il diario delle pecorelle (Das Tagebuch der kleinen Schafe) – Terza parte: le sezioni minori
K di Emyr ap Richard e Darhad Erdenibulag, è la versione mongola de Il castello di Kafka. Coproduzione anglo-cinese, ci ha pure messo due spicci Jia Zhangke, il film è come ci si poteva aspettare: una merda. L’ambientazione esotica è quasi invisibile, nonché inutile. Piani e contropiani verbosissimi e insistiti si susseguono raccontandoci la storia che tutti, più o meno, conosciamo.
Perché cimentarsi in un film con un soggetto tanto difficilmente rappresentabile e faticosamente già rappresentato da altri? L’inutile domanda sarebbe potuta restare nell’ipertrofico mondo dell’inespresso se non fosse stato per il simpatico dibattito seguito alla straziante visione. Il regista con passaporto cinese svela tutto: “Cercavamo un soggetto per valorizzare le due belle attrici (leggi: ‘per dar loro una motivazione ad accoppiarsi con due sfigati come noi’) e quando Richard, l’inglese, me l’ha proposto ho subito accettato.” Come controprova dell’elevato livello intellettuale dell’operazione, l’attore che interpreta K. risponde così all’ingenuo intervistatore che gli chiede come si è preparato per la parte: “Ho provato a leggere il libro ma non ci ho capito niente. Ho solo fatto quello che i registi mi dicevano di fare.” L’ho nominato mio guru per cinque minuti mentre le pecorelle si rotolavano giù dagli scalini della sala per le risate.
La serata è proseguita con il film coreano Cheol Won Gi Haeng (End of winter) di Kim Dae-hvan.
Sarà stata l’ambientazione nevosa, sarà stata la fotografia plumbea, saranno state le facce anonime, il leggero dramma famigliare in atto (un professore appena pensionato dichiara a moglie e figli di volere divorziare), sarà stato l’abbondante Heu Apfel (il fieno alla mela) consumato prima della visione, ma le pecorelle si sono tutte addormentate sulle comode poltrone basculanti, come del resto anche la metà degli spettatori (quella che non aveva in corpo l’enorme dose di caffeina della tipica coca media da multisala).
Dopo questa brutta esperienza, il gregge ha deciso di non voler più frequentare film proposti nella categoria Forum del festival, dedicandosi solo ai film in concorso, ai fuori concorso o, al massimo, alla sezione Panorama dove trovano collocazione opere di taglio meno amatoriale, quando non decisamente di qualità e budget normali.
A questa sezione, oltre all’inconcludente Angelica di cui si è già parlato, appartiene il primo lungometraggio di tal Justin Kelly: I am Michael che probabilmente, senza lo spot dato dalla presenza di James Franco come protagonista e produttore, non avrebbe mai lasciato la sale del Sundance o, al limite, sarebbe finito nella serie C della Berlinale. Il film ricostruisce una tranche di vita del signor Michael Glatze, gay attivista, che dopo un sofferto travaglio interiore diventa un pastore cristiano anti gay. Storia interessante sulla carta, nella resa cinematografica si sperpera nello stile cronachistico e volutamente distaccato di quelle opere che Nerina definisce brutalmente ma efficacemente: senza palle. Cento minuti per tradurre in immagini un articolo di giornale senza fare la differenza da quest’ultimo sono uno spreco e un insulto per l’amore cinefilo delle pecorelle che si sono sbizzarrite in militanti deiezioni e pallette puzzolenti.
Mentre scrivo, veniamo a sapere che hanno dato l’Orso d’Oro a Taxi, il film di Panahi girato alla chetichella, pare, con una camera piazzata su di un taxi guidato dallo stesso regista. Premio politico sul quale gli ovini, creature qualunquiste per definizione, rumoreggiano scontente.
Il vero vincitore è il secondo premio, l’eccezionale El Club di Pablo Larrain, storia originalissima scritta, interpretata, fotografata in modo perfetto. Ma questa… è un’altra pagina del diario.