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Mea culpa, mea maxima culpa – Eye in the Sky: Il Diritto di Uccidere di Gavin Hood

di il 15/08/2016
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Il "doppio" senso dell'etica. Vero

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Aver visto Alan Rickman (1946 - 2016) per l'ultima volta

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IL MIO VOTO


AFORISMA
 

Cosa ci fa Dame Helen Mirren che indossa una divisa camouflage nei trailer?

 

Personalmente ho gioito quando Judi Dench / Barbara Mawdsley/Olivia Mansfield è stata “liquidata” in Skyfall. Le mie urla da tifoso da stadio erano incontenibili, tanto mi piace James Bond, tanto mi stava di traverso quella “M”. Ho quindi iniziato la visione di “Eye in the Sky: Il Diritto di Uccidere” un po’ guardingo, con quella inevitabile circospezione sessista maschilista (mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa).

Eye in the Sky” ha invece tutte le carte in regola: il regista Gavin Hood si era già portato a casa nel 2005 l’Oscar al miglior film in lingua straniera con “Il suo Nome è Tsotsi”, e quindi “il gioco” lo conosce bene. Potendo fermarsi alla “missione”, alla spettacolarità dell’uso dei droni e dintorni (tecnologie di guerra che fanno davvero rabbrividire), al gioco di potere nelle stanze di Londra, Las Vegas, Pechino, Gavin Hood decide di andare oltre e coinvolgerci in una lotta etica, ci pone una singola domanda che dura tutto il film, e alla quale personalmente non ho ancora trovato risposta. “Eye in Tthe Sky: Il Diritto di Uccidere” è una trovata che non s’inceppa. Porta a termine egregiamente ogni trucchetto, ogni sequenza che ostentatamente ci spinga a mutare da un estremo all’altro la nostra “ferrea” posizione, e che poi scopriamo non essere così tanto ferrea. Ed è proprio su questo versante del gioco morale che scopriamo che Dame Helen Mirren è il cardine perfetto. Il suo sguardo cupo, niente affatto determinato, la scelta di non farci sapere se questa donna sia madre, sia felice, se abbia altri interessi oltre a servire la propria nazione. La metacognizione rallenta, e quindi va esclusa dalla tavola dove sono appoggiati i tasselli che abitano questa lunga giornata di agonia.

L’eteroterma Helen Mirren, –dal suo rifugio che all’interno di un bunker da qualche parte in Inghilterra- (ma dopo Brexit ho le idee un po’ confuse su dove potesse essere geograficamente posizionata), inizia con il polso saldo e il sangue “abbastanza” freddo. Sta per concludersi un lungo ed estenuante lavoro del più elevato livello d’intelligence, durato ben sei anni, e Helen Mirren/Colonnello Katherine Powell, è il leader di una squadra che sta per usare un drone e fermare due giovanissimi jihadisti neo-reclute.

A Nairobi abbiamo il piacere di ritrovare il deus-ex-machina delle operazioni in Kenya, e cioè, l’agente Jama (l’attore Barkhad Abdi, il cattivissimo pirata senza un briciolo di umanità del film “Captain Phillips: Attacco in Mare Aperto”), e infine, a spingere il pulsante (e con gli occhi lucidi per tre quarti del film), c’è Aaron Paul (chi ha familiarità con “Breaking Bad: Reazioni Collaterali“, sarà d’accordo che lui è davvero talentuoso).

Il film ovviamente offre le statistiche, le scelte e le disposizioni legali che vengono rimpallate al livello più elevato, le ipotesi di minore impatto, le ipotesi di “chissenefrega”, le ipotesi di “poi lo sistemiamo nel rapporto”, il tutto come se si dovesse arrivare fino alla Regina Elisabetta oppure a qualche entità divina, non perché si tratti della guerra, oppure perché si parli di una SOLA vita o di MOLTE vite (e qui, la citazione di Eschilo che apre la narrativa del film merita il plauso a chiunque abbia fatto la ricerca: “in guerra, la prima vittima è la verità”), probabilmente il film cerca di metterci di fronte all’evidenza che la razza umana, semplicemente, non è fatta per prendere decisioni. Non sappiamo deciderci, e quotidianamente possiamo avvalerci di ogni piccolo espediente per giustificare questa caratteristica, ma non c’è scampo, e il regista Gavin Hood non prova alcun remore a ricordarci questa piccola falla che contraddistingue il nostro sistema, la nostra psiche, e persino il rapporto tra le nazioni.

La sospensione d’animo c’è tutta e va avanti per tutta la durata del film, il drone non sbaglia di un millimetro, e ci chiediamo se il fattore umano, quello invece, abbia sbagliato la mira. “Eye in the Sky: il Diritto di Uccidere” è un film complesso che trionfa su centinaia di film che sviscerano esattamente lo stesso argomento e ruotano attorno allo stesso schema, tuttavia l’impeccabile recitazione, la densità della sceneggiatura -che sa essere schematica e prudente davanti all’ambivalenza delle strategie del potere- lo rende una piccola gemma nel genere.

Per coloro che torneranno dalle vacanze di Ferragosto, e avessero dei figli ancora irrequieti, carichi ed esagitati, portateli pure a vedere “Eye in the Sky: il Diritto di Uccidere” e poi parlatene per una settimana. Teodora Films distribuirà questa pellicola in tutta Italia a partire dal 25 agosto 2016. Ed è probabile mi ritrovi in sala a vederlo per la seconda volta.

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