Dopo la nuova fiammante Sala Giardino, bellissima ma non esattamente comoda o insonorizzata quando fuori tira vento, l’altra grande novità di Venezia 73 è il VR Theatre: una stanza elegante (con tocco hi-tech) all’interno della quale son disposte random delle comode poltrone da dirigente comunale, con tanto di sedile girevole, staffe e rotelle.
Il mondo della realtà virtuale è solo agli inizi, per questo la selezione di film girati con questa tecnologia è risibile. Al Lido sono arrivati soprattutto corti, demo di video-arte, documentari e uno spezzone di un film su Gesù, che non ho visto e non vedrò mai ma che – secondo le intenzioni della produzione – dovrebbe trovare in futuro una qualche non precisata forma di distribuzione commerciale. E’ l’alba di una nuova era, e non ho dubbi sul fatto che soppianterà il modo di fare cinema e cambierà radicalmente il mondo dei videogiochi e del tele-lavoro. Diciamo che quest’anno la sala esiste solo come curiosa vetrina per la nuova tecnologia. Ci si siede sulle poltrone, si indossa il caschetto, il film parte e ci si trova immersi nella scena a 360 gradi. Passa a video, davanti a me, una strappona qualsiasi, mi supera, mi giro abbassando lo sguardo e ammiro le sue terga. Stupendo, tutto naturale, senza scatti, senza distorsioni dell’immagine. Vedo un capannello di gente che parla e decido io chi guardare, o se guardargli le scarpe, alzare lo sguardo al cielo o fermarmi sul bidone dell’immondizia alle mie spalle. L’immagine non segue solo i movimenti della testa: ho provato a far ruotare la poltrona su sè stessa e l’immagine mi ha seguito con grande naturalezza. Dalla breve esperienza di una trentina di minuti sono rimasto positivamente colpito, mi ha convinto. C’è ancora molto lavoro da fare e dettagli da affinare, c’è un audio che non è a 360 gradi e non sembra modificarsi in funzione di dove giro le orecchie, c’è purtroppo anche una definizione dell’immagine paragonabile a quella delle videocassette anni ottanta. A voler fare i precisetti, gli spostamenti avanti/dietro non vengono contemplati dal software di gestione dell’immagine. Significa che, ad esempio, se davanti allo spettatore c’è un secchio e si tira avanti il collo per poterne vedere il contenuto, il secchio semplicemente si sposta più in là senza mai cambiare prospettiva, e non ci libera dalla curiosità. Ma, mi ripeto, il tutto ha ottime prospettive future. Una volta finita la proiezione, tornare al mondo reale è stato alienante e mi girava un po’ la testa. Come ai nonni quando guardano i nipotini giocare con l’xbox: non è una tecnologia per i Giovani d’oggi, ma per i figli che nasceranno fra una decina d’anni. Loro saranno adatti al mondo che verrà.
Giornata di ossessioni senili quella di oggi, tra la religiosità insistita di Mel Gibson e il delirio di onnipotenza di Wim Wenders ho seriamente temuto che l’unico motivo della mia presenza oggi fosse quello di guadagnarmi il paradiso. M’incammino moscio verso la Sala Grande per
El ciudadano ilustre (the distinguished citizen) di Chon e Duprat
Commedia umana arguta e tagliente. Sa far ridere, azzecca qualche massima memorabile e, in fondo, fa anche paura.
L’attore principale è di una naturalezza sorprendente.
Non so se sia la Mostra a voler spingere il cinema sudamericano dopo la vittoria di Desde Allà lo scorso anno o semplicemente in questo squarcio di storia quel sud del mondo abbia la corrente artistica più fertile, ma non c’è dubbio sul fatto che per dare 5 stelle a questo devo abbassare di un voto tutta la mediocrità che ho visto in concorso fin’ora.
Il mio leone d’oro, salutato con (eccessivo) entusiasmo in sala grande
L’euforia per il primo grande film in concorso si spegne molto velocemente con il folle La Región Salvaje di Amat Escalante. Il film è bipolare e si scinde in due estetiche, due storie e due godimenti ben distinti. Uno che più banale è difficile e l’altro, tolta la scena dell’arca di Noè del sesso e quelle del mostro tentacolare pressoché decontestualizzato che fa godere uomini e donne come mai in vita loro, è ben poca cosa. Avrei voluto che pigiasse l’acceleratore sulla quella psicadelia che ogni tanto fa intravedere.
Si fa buio. Partenza sei di mattina ritorno due di notte, un wurstel crudo, partenza sei di mattina ritorno due di notte, due uova scadute, partenza sei di mattina ritorno due di notte, ho dormito o sono sempre rimasto sveglio? Il punto non è se si crolla, la cosa è certa, il punto è quando, o se è già successo. Son di nuovo in sala e non ricordo niente degli ultimi dieci giorni.
Une Vie di Stéphane Brizé
Una storia d’amore e tradimenti, di vita difficile e misero riscatto. Un film francese in 4:3 in costume. Per come la vedo io avrei dovuto prendermi il cervello e darlo in pasto ai maiali anche solo per l’idea di provare ad andarlo a vedere. Ma, diciamolo, ho solo che una debolezza: adoro i salotti bene di fine ‘800. Quei vestiti, la vita lenta, il dar valore a cose assurde, i pomeriggi a giocare a scacchi e filosofeggiare. Le menzogne raffinate, gli stemmi decaduti, le grandi ricchezze dilapidate al gioco, i matrimoni di convenienza, i convenevoli, l’alcot al collo, gli orologi da taschino, il dare importanza all’etichetta, le malelingue, le lettere scritte a penna, le tende di velluto, il clavicembalo, il melodramma, gli arazzi, i mobili intarsiati, i profumi ed i letti a baldacchino.
Quanto avrei voluto vivere in quell’epoca. Questo film mi ha fatto sognare. Ma, come tutti i bei sogni, anche questa piacevole illusione è finita di colpo e, cosi, dopo poco più di un’oretta sono rinsavito e mi sono affrettato a lasciare la sala mentre ancora scorrevano le immagini.
Sconsigliato
The road to mandalay di Midi Z
Ha ben poco da dire questo tailandese piatto ma rispettabile con un finale ad effetto totalmente ingiustificato.
Un principe operaio s’innamora di una contadina che si trasferisce in città dalla miseria della Birmania. Lei finge di non accorgersene perché preferisce marcire in una fabbrica in cui devono chiamarsi col loro numero di matricola al posto del nome pur di aiutare la famiglia povera a casa.
Non capisco l’urgenza creativa che ha spinto il regista a dover raccontare una storia cosi comune e sempliciotta. Non c’è un momento in cui affondi la lama ed il risultato globale, già ampiamente dimenticato, ha lasciato un retrogusto ben poco intenso.
La misera e tristissima presenza di film asiatici trova il suo campioncino in questo bel Gokoroku di Kei Ishikawa. Niente di che, ma vista la barriera alzata ultimamente dalla Mostra verso quella parte di mondo cinematografico, bisogna accontentarsi.
Un bel thriller folle e concettualmente violento che ha come unico difetto quello di giustificare le proprie azioni con motivazioni un po’ fragili. Insomma a voler guardare il pelo nell’uovo se ne troverebbero parecchi. Vince però il premio Cricchetta-del-cinemino-love perché non solo il protagonista si chiama Tanaka, ma la trama ruota attorno ad un gruppo di giovani ricchi spocchiosi e pericolosi che si fa chiamare “la cricca“, un gruppo in cerca di ragazzine psicopatiche da rovinare.
“Loro sono speciali, sono la cricca” (cit.)
Credo che chiederò i diritti di copyright alla produzione.
La mostra sembra aver chiuso definitivamente le porte all’oriente e si sta vendicando dell’Era Muller facendo credere al pubblico che le produzioni mediocri arrivate al Lido siano rappresentative di quel bel cinema.
Finisce un altro giorno e non me ne accorgo. La mia alimentazione forzata di alcol-caffè-sigarette-stracciatella è il modo migliore che ho trovato in questi anni per dimagrire dopo le gozzoviglie estive. Non capisco quindi perchè da un paio di giorni non ho più la sensibilità alle labbra e i clienti mi chiedono se faccio risse di strada di notte. E’ di nuovo giorno e in men che non si dica entro i sala per:
White sun di Deepak Rauniyar
Miracolamente un film nepalese che non annoia. Regge pure un ritmo decente per quasi tutto il tempo. Chi se lo sarebbe mai aspettato?
Due fratelli di idee politiche agli opposti s’incontrano dopo anni al funerale del padre. L’occasione è ghiotta per rievocare vecchi rancori, problemi irrisolti e una superficiale lettura politica di una regione invece molto calda.
Se avessi 12 anni e se il regista ne avesse 11 allora avrei potuto accettare quel finale cosi ingenuo. Infantile lo è in tutto ma mette addosso anche una tenerezza capace di addolcire il peggior cinico.
Almeno è un film, non la cazzo di demo video in grafica digitale firmata da quel vecchio trombone di Malick. Il nome più importante in concorso dilata per due ore la chicca d’intermezzo del suo bellissimo Tree of life. Presentandone di fatto la versione extended, Voyage of Time: Life’s Journey. Ne parlo esaurientemente qui.
Su Dark Night di Tim Sutton non voglio nemmeno soffermarmi: ruba l’idea che Gus Van Sant sfruttò a suo tempo per il bellissimo Elephant. Non regala nessun motivo di interesse, non tiene viva l’attenzione, mostra personaggi intercambiabili di cui non te ne può fregar di meno e annoia con scene di vita quotidiana casuale. Pessimo
Mi ritrovo infine per disperazione tra le grinfie di Austerlitz di Sergei Lonznitsa, uno a cui piace tanto Seidl, fa quel che può ma ha il talento che ha. Piatto, banale, elementare.
Ci vediamo domani mia adorata Mostra, se il buon dio vorrà.
Menomale che ci sono i miei amici a volermi bene