Billy Crudup
l'ambiguità ideologica del film, è comunista o anticomunista?
il primo piano sul volto di Natalie Portman nel film “Jackie”, ci fa vedere una donna in lacrime, una donna pervasa dal dolore e dalla tristezza (sentimenti che poi contraddistingueranno l’esistenza di Jacqueline Bouvier).
Larraín è arrivato a questo livello di consapevolezza della valenza cinematografica di una storia, non a caso. Era quasi inevitabile diventasse il nuovo enfant prodige della macchina Hollywoodiana, dopo capolavori quali: “Tony Manero” (2008) e “Il Club” (2015).
Premesso che il sottoscritto non è, e non sarà mai obiettivo quando si tratta di Jacqueline Kennedy, venerandola dallo stesso momento in cui, nel 1994, a 19 anni mia madre mi disse (mentre eravamo seduti in cucina), che Jackie O. era appena morta. Me lo disse come se un membro della nostra famiglia fosse appena mancato, come se dovessimo stringerci in lutto. L’ossessione è andata in un crescendo inevitabile, e ho intrapreso viaggi e trasferte per vedere mostre dedicate a lei, per essere a Dallas nel punto esatto dove lei è diventata vedova. Aspettavo questo film come se fossi stato nel deserto in attesa di una bottiglia d’acqua.
Nello stesso momento in cui Lee Harvey Oswald toglie la vita al Presidente più mediatico, più amato, più tormentato, toglie tutto a Jackie. Jackie perde il padre dei suoi figli, perde il titolo di “First Lady”. Quell’assassinio riempie il cuore di Jackie e il cuore di tutto un paese di uno struggimento e un’afflizione che mai si sarebbero immaginati potesse accadere. Eppure, in quello stesso momento Jackie diventa un’icona: una donna, una madre che decide esattamente cosa sia meglio per se stessa, per i suoi figli, per le masse, per il popolo americano e per la comunità internazionale.
Larraín è straordinariamente bravo a non scivolare in banali sentimentalismi. Sta lontano dalle teorie del complotto e da dietrologismi futili e matasse di ipotesi ancora non sciolte del tutto. L’assassinio di John Fitzgerald Kennedy ha portato alla pubblicazione di centinaia di libri su questo avvenimento che in qualche modo ha cambiato il percorso della storia.
La metrica stilistica del “follow shot”, è una scelta coraggiosa, ed è la scelta che valorizza il metodo di Natalie Portman nello studio del personaggio: non c’è imitazione, non c’è una semplice interpretazione, vi è una rivisitazione della psiche di questa donna ermetica ed enigmatica. Non esiste una singola ripresa statica. Lo sguardo di Larraín contiene molte emozioni, e nello stesso tempo, siamo certi che ci riporta, in maniera documentata, a quel momento storico, e progressivamente iniziamo ad appropriarci dell’amarezza e della disperazione: lui in quanto regista, Natalie Portman in quanto Jackie e noi, in quanto spettatori rapiti. Jackie mantiene una lucidità fragile e precaria: si avvicina agli oggetti custoditi con tanta cura all’interno della Casa Bianca, “gli oggetti durano più delle persone, e rappresentano ideologie, bellezza, tradizione. La tradizione è necessaria”.
Jackie/Natalie Portman decide di essere impenetrabile, persino nei momenti di confessione, nei momenti in cui sembra voler sfidare la volontà del suo “dio”, perché dopo la morte di suo marito è tormentata dal non poter ottenere più risposte. E non crede basti l’infinita saggezza di “dio”.
“Jackie” è una pellicola caratterizzata da una linguistica lineare, poco trasgressiva, immediata. Non ci sono sbalzi, nessun segreto viene svelato, non c’è malizia. Jackie confessa: “non ho mai voluto la fama, sono semplicemente diventata una Kennedy”. E’ probabile che il momento più intimo sia quello dedicato all’ascolto di “Camelot”, musical che JFK e Jackie ascoltavano ossessivamente (al punto di suggerire che i principi e gli ideali di Camelot forgiassero la determinazione di JFK). Ma si vocifera sia stata un’invenzione della vedova Jacqueline ad associare volutamente “Camelot”, durante l’intervista che lei stessa rilascia a un giornalista senza nome (Billy Crudup), che lavora per una testata senza nome, dove l’intervista viene incontro alla narrativa per creare un doppio registro.
La differenza fra due film che cercano di circoscrivere momenti storici che hanno coinvolto la popolazione internazionale, quali “The Queen: La Regina” (2006) di Stephen Frears, film dal taglio quasi televisivo, permeato d’illazioni inesatte (il rapporto conflittuale tra Lady Di e la Regina, che infatti era quasi idilliaco), e “Jackie”, risiede nel soggetto. Nel desiderio di aggiungere maggiore o minore artificialità, e di lavorare con maggiore o minore enfasi sui personaggi di sfondo, o meglio, sui personaggi secondari. Dame Helen Mirren fece un grande favore alla Regina Elisabetta II, e dieci anni dopo il film ancora non sappiamo se la Regina abbia visto o meno la pellicola. Jacqueline Bouvier non potrà mai vedere il capolavoro di Larraín, ma ovunque sia, lei ringrazia. E lo so perché Jackie mi compare in sogno. “Jackie” è un grande film perché è subordinato a una grande sceneggiatura, a una grande regia e a una magnifica recitazione. E ai detrattori che già catalogano il film come una telenovela strappalacrime posso solo dire che tutti adoriamo le favole (e io non sono l’eccezione). Anche Tori Amos adora il mito di Jackie, e scrisse uno dei più bei brani della sua carriera, dedicato a questa straordinaria donna.
Complimenti per la recensione che condivido pienamente