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TO THE WONDER di Terrence Malick

di il 20/11/2016
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IL MIO VOTO


 

Gente che cammina in una spiaggia trascinando i piedi nella battigia in slow motion. Sorridono, guardando oltre l’obiettivo. Le loro espressioni denotano beatitudine, forse. Il Requiem di Berlioz in sottofondo, senso di pace… è uno spot per una società di assicurazioni sulla vita! No, sono seduto da oltre due ore e Brad Pitt e Sean Penn non possono essere così in bolletta. Jessica Chastain schiude le sue mani levate verso il cielo e sussurra: “La dono a te… Ti dono mio figlio”. Cristiddio, è la campagna del cinque per mille alla chiesa cattolica! Passa un tipo che sembra Leonard Cohen. Cazzo c’entra Leonard Cohen? Si accendono le luci. Mi alzo, deluso. Deluso con me stesso, perché non sono riuscito a perdermi nell’estasi del film. È colpa mia, non capisco. Le mie funzioni cognitive sono insufficienti. Malick ci mette dieci anni a fare un film, se io non capisco deve per forza essere colpa mia. Malick ha insegnato filosofia al MIT, io sono solamente un povero coglione che paga il biglietto per andare al cinema.
Una settimana dopo vengo a sapere che alla Cineteca di Bologna hanno proiettato Tree Of Life per nove giorni consecutivi con i rulli invertiti senza che nessuno tra il personale ed il pubblico si accorgesse di niente.
È con un misto di trepidazione e speranza che mi siedo infine, tre anni dopo, nella stessa sala veneziana. Asceticamente a digiuno di qualsiasi recensione, per non partire prevenuto. Try it again, Sam. Malick è pur sempre il regista di Badlands…
Il film inizia bene, la solita fotografia sontuosa di Lubezki ed il virtuosismo registico che certo non difetta all’autore. Per un po’ mi sento coinvolto, anche se leggermente infastidito dal solito, implacabile voice over tanto caro a Malick. Eccoci scorrazzare con i due amoureux per le viuzze di Parigi, Mont-Saint-Michel (la merveille, the wonder), inebriati anche noi dai movimenti di camera e dalla bellezza accecante di ogni immagine. Potrebbe essere uno spot di Chanel ma non facciamo troppo i difficili, per carità. Poi, improvvisamente, alla quindicesima piroetta tra le spighe della splendida Olga Kurylenko, cedo di schianto. Mi arrendo, senza provare più nessun senso di colpa, e lascio che la pellicola si riveli liberamente a me in tutta la sua (in)consistenza: un trionfo di manierismo catecumenale, condito di sguardi obliqui, silenzi, tramonti infuocati, mani intrecciate e ancora tante spighe. Ecco far capolino anche Javier Bardem, talmente sperduto che sembra piombato dal set di un altro film. In un lungometraggio di poche parole, esplodono secche come fucilate certe frasi epocali come “l’amore che ci ama”, “una valanga di tenerezza” o addirittura “Io sono l’esperimento di me stessa”, pronunciata in italiano nell’originale da tale Romina Mondello, ex di Non È La Rai.
Empatia zero. Non è possibile altrimenti: lo studio sui personaggi è approfondito quanto in una soap guatemalteca. Forse è una cosa voluta. Forse. Oramai ho rinunciato e provo un senso di sollievo, mentre lascio che il film mi scivoli addosso senza opporre resistenza alcuna.
Vedo Ben Affleck e la mia mente corre a Sergio Leone ed a quanto diceva su Clint Eastwood: “Ha due sole espressioni: una col cappello ed una senza cappello”. Passo il resto del film ad immaginare Ben Affleck con il colbacco, con i kepi, con il fez…
Una stella. E solo perché è pur sempre il regista di Badlands…

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