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#VivaArteViva – La Cricchetta va in #BiennaleArte2017, prima parte

di il 22/05/2017
 

Biennale 2017, mostra di migranti e di tessuti: è indubbia la presenza di questi due temi in percentuale schiacciante rispetto agli altri.
Non sono molto d’accordo coi giudizi letti finora, che la definiscono per lo più una Biennale tiepida: per un evento così mastodontico credo sia impossibile raggiungere un giudizio che sia univoco oppure onnicomprensivo. Occorre sapere fermarsi ad ognuno dei temi proposti e saper andare in profondità, attribuendo lo spessore giusto ad ogni manifestazione d’arte qui presente.


Sicuramente il tema della povertà e dei rifugiatati politici, divenuto quasi cavallo di battaglia collettivo, ed è proposto da tante voci, che può sembrare un argomento “abusato” -più che rappresentato-, ma del resto non esiste alcun evento che possa descrivere in maniera migliore gli anni che stiamo vivendo.
Certamente inusuale arrivare alla Biennale con la sciarpa; solitamente il problema non è coprirsi, ma trovare il deodorante nello zaino, per passarlo nelle ascelle una volta all’ora: oggi sembra di essere a Londra.

Ho adorato che in fila per andare a vedere il padiglione statunitense (già, code per entrare anche quest’anno) ci fosse l’artista Mark Bradford (piuttosto conosciuto tra addetti ai lavori e non), che si faceva selfie con le persone che attendevano. Tra l’altro uno degli artisti che ho più apprezzato e di cui si è parlato meno, bellissimi i quadri e l’antro ricavato dalla prima stanza della sala espositiva.
Notevole e ricco di materiali originali la proposta dell’Inghilterra; interessante, controversa ed intelligente la Germania; sempre affascinante la Russia, che riesce ad essere monumentale e potente ad ogni edizione.

L’Egitto presentava un video di Moataz Nasr intitolato The Mountain. Utilizzata la quasi totalità del padiglione ai fini di raccontare la storia di un piccolo paese, lo schermo enorme è diviso in cinque parti dove scorre la storia in tempistiche diverse (che oltre che a spiazzare lo spettatore, può rendere snervante l’esperienza, alla luce del fatto che in realtà non si riescono a seguire le vicende contemporaneamente), nel complesso occorre però riconoscere lo straordinario effetto estetico e visivo creato dall’artista egiziano, le immagini sono insolite e la storia che viene raccontata riguarda una cittadina tenuta sotto scacco dalla credenza che la montagna (quasi sempre presente in uno dei cinque schermi), sia posseduta dagli spiriti maligni e a causa di questa maledizione o di questa “leggenda metropolitana”, nessuno esce di casa dopo il tramonto.
Solo una ragazza, emigrata al Cairo e tornata al paesino sfida gli dei. Con risultati imprevisti.

Profondamente toccante la storia, la fotografia, la rappresentazione della paura, che risulta maggiormente incredibile in un mondo dove oramai le informazioni sono reperibili ovunque, e dove un villaggio è tenuto sotto scacco da una credenza atavica.
Arriva l’una e i prosecchi bevuti all’inaugurazione dei padiglioni di Spagna e Belgio iniziano a farsi sentire, ma stoicamente si procede.

La Spagna rappresenta un insieme di scene e ritratti: una raccolta di video testimoniamo l’arte in movimento di Jordi Colomer, il cui nomadismo si spinge anche alle cose. Roulotte, cavalli, ma anche interi edifici sulle ruote che vengono spostati da un gruppo (gruppo che ritroveremo come filo conduttore poiché protagonista di tutti i video). Il progetto, che può essere definito come “un’installazione fatta di installazioni”, e s’intitola “Join Us”, vede coinvolti l’attrice Laura Weissmahr, la meravigliosa Lydia Lunch (cantante famosissima ai cultori del punk e rock), e la ballerina di danze orientali Anita Deh, che costituiscono le protagoniste di più di dieci video disseminati nelle quattro sale in modo molto sapiente, e che regalano allo spettatore l’impressione di essere totalmente immerso in questo mondo in movimento creato dall’artista.

La Lunch gira in macchina a Nashville, urlando sermoni e denunciando il pericolo in cui è messa la pace nel mondo odierno, una favolosa predicatrice contemporanea a bordo di auto.

La danzatrice fa ballare gente comune in città anonime, in una periferia di posti malfatti e fatiscenti, un gruppo di persone, tutti di razze diverse attendono seduti su una panchina l’arrivo della maestra.
Vedere l’impegno mentre cercano di riprodurre i passi di danza dell’insegnante, vestita come un quadro di Mondrian (stessa maglietta viene indossata dai protagonisti di tutti i video), è di una dolcezza incredibile: siamo tutti uguali davanti alla goffaggine.
Intenso e coltissimo il padiglione della Grecia Laboratory of Dilemmas, di George Drivas.
Basato su un testo di Eschilo, Le supplici, la sala espositiva viene trasformata in un labirinto (lavoro molto recente, perché l’odore di vernice era davvero fastidioso), scuro e nella parte superiore una serie di video rappresenta l’indecisione, paragonata a quella del Re nella tragedia, di procedere o meno in un esperimento di ricerca scientifica nelle cellule dell’epatite.
La sfrontatezza del potere della medicina che si scontra con il dubbio di altri studi, rappresentati nell’ultimo video da una Charlotte Rampling attempata, ma sempre colma di fascino, che installa ragionevoli dubbi sulla relazione del medico. Molto interessante l’allestimento, che rende più rende accattivante un’opera altrimenti piuttosto complicata da capire.
Il padiglione dell’Australia espone fotografie di Tracey Moffat, di grande effetto e ottima fattura, anche se danno l’idea di stucchevole e patinato, decisamente voluto perché in netto contrasto con i soggetti rappresentati, ma non arrivano comunque: la sensazione che resta comunque è di artefatto.

Grazioso il video in formato collage di espressioni di stupore di star (rubate da spezzoni di film), e intervallate da immagini di migranti. Divertente, ma concretamente mancato spessore e profondità.
Il Padiglione Centrale è una miscellanea di artisti, alcuni anche molto noti (piuttosto deludente la sala dedicata a Kiki Smith) e talvolta non si capisce bene cosa li tenga uniti
Il video Tightrope dell’artista russo Taus Makhacheva è decisamente lungo e non certo vibrante per azioni: un funambolo trasporta, camminando su una corda sospesa nell’aria, dei quadri, portandoli da una montagna ad un’altra. L’arte è l’oggetto che la rappresenta, in questo caso il quadro non è un fine, ma un semplice mezzo che genera la creazione di un’altra opera.

Avrebbe decisamente giovato una durata minore.

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