*Il cinema è come il sogno: le idee di Freud vi si possono applicare direttamente
(Ludwig Wittgenstein – Movimenti del pensiero. Diari 1930-1932/1936-1937)
Premetto che, senza la tessera omaggio che la Cricchetta assicura ai suoi collaboratori più affascinanti (cioè tutti), difficilmente mi sarei mai trascinato, nelle umide e ormai fredde serate autunnali, a vedere due horror in sequenza.
L’horror, come ci ricorda Wittgenstein*, è uno dei generi più rassicuranti per lo spettatore. Chi li frequenta sa sempre cosa aspettarsi: come minimo una storia, per quanto inverosimile, poi del sangue e uno o più mostri. L’horror è una pizza (e spesso lo è fuor di metafora): pochi e semplici ingredienti più un forno. Son capaci tutti, sembra, ma non è così.
Gli horror buoni di rado raggiungono le sale. La pizza Da Tonino è cento volte più buona di quella dello Spizzico ma, se non abitate vicino a lui o non siete dei maniaci, difficilmente vi ci imbatterete.
Chi è riuscito a vedere Raw della vegana Julia Ducournau o Hounds of Love dell’esordiente Ben Young, per esempio? Eppure sono prodotti ben al di sopra della media e non solo nel genere. Scappa – Get out, di Jordan Peele, piccolo gioiello dell’intera stagione 2017, è uscito senza un adeguato battage pubblicitario, annegato tra un cinepanettone scaduto e un Marvel qualsiasi.
Non mi facevo molte illusioni su IT. Primo perché oggettivamente difficile (ma non impossibile, visto che Stand by me c’è riuscito) rendere anche solo in parte la quasi sovrannaturale capacità di Stephen King di descrivere, nei minimi dettagli e umori, l’ambigua e misterica età della preadolescenza. Secondo, per la mole dell’opera (e, in questo senso, l’dea di dividerla in due film non è sbagliata). Terzo per il regista: Andrés “Andy” Muschietti. Si può essere lombrosiani sui nomi? Se sì non c’è da aggiungere altro. Per gli scettici, ricordiamo che è il regista di Mama un drammone psicanalitico (della domenica) travestito da horror gotico. No, non ce la poteva fare (e infatti non ce l’ha fatta). Nonostante il cast formidabile e il budget lussurioso, il risultato è piatto. Si concentra sul ‘mostro’ clown che, nonostante i denti da piranha, non spaventa per niente. Ignora tutte le suggestioni offerte dal mondo magico dei ragazzi. Non trasmette il sentimento cardine del libro: l’inquietudine. Peccato mortale. A chi frega, a questo punto, di vedere la seconda parte se il meglio doveva essere questa prima?
Auguri per la tua morte di Christopher Landon, invece, nella sua semplicità è cool. Sfrutta il sempre efficace plot del loop temporale ma in chiave horror. Una ragazza si sveglia al mattino nel letto di uno sconosciuto. È il suo compleanno. Alla sera un maniaco mascherato la ucciderà e lei si sveglierà da capo nel letto dello sconosciuto. Riuscirà la nostra eroina a scoprire l’assassino e interrompere così il ciclo di morti e rinascite? Sì, ovviamente, ma non senza un paio di colpi di scena e parecchi momenti divertenti. Perché il film è cool? Per la protagonista, Jessica Rothe, che imprime al suo personaggio una carica vitale e una antipatia\simpatia irresistibili. La sua capacità mimica, il suo muso di gomma, fanno chiudere un occhio sulla differenza anagrafica tra la sua età reale (30) e quella della protagonista (20). Un appunto per il regista: la parte posteriore nuda di una trentenne bianca esposta alla luce piena del sole non è tragicamente uguale a quella di una ventenne. Si vede e fa soffrire. L’idea era simpatica ma si doveva usare una controfigura o rinunciare all’inquadratura.
Chi vince? Si è capito e pure con solo un settimo del budget dell’altro. Con lo stesso povero budget (5.000.000 $), una commediola Sundance sbaraglia ogni altro titolo in programmazione: The Big Sick di Michael Showalter. Che c’entra con gli horror? Niente, in apparenza, ma lo cito per due ragioni, anzi tre.
La prima è che non merita una recensione singola perché già tutti, o quasi, ne parlano benissimo, forse fin troppo.
La seconda, forse epocale, è che, pur provenendo dal Sundance, non si vede una nuca o una ripresa fatta con macchina a mano.
La terza è che esce dai magazzini Amazon. Mentre lo guardavo pensavo: ‘Non male ma perché non mi fa felice come altre simili commedie americane? Cosa manca?’ Poi, al termine del film, il logo Amazon mi ha illuminato. Ecco cos’è! Manca la concretezza del supporto reale, del produttore reale, del denaro reale. Amazon come Google, è un Ente astratto. Come Google non offre risposte vere (significativo è il responso sornione del suo assistente virtuale alla domanda ‘Ma tu, hai un’anima?’ Risposta: ’Non saprei dove cercarla’) così Amazon non vende oggetti veri. Non si comprano libri, scarpe, pelouche, detersivi, ecc. ma i loro simulacri, le loro icone. Ciò che arriva via posta non è una cosa ma la traduzione, l’interpretazione più o meno fedele, di un desiderio. Parafrasando un classico, Amazon ci ha invaso di infracorpi, funzionali ed efficienti, ma privi di amore, inscatolati, perché il legame affettivo tra acquirente e bene muore nel click del mouse. Non si trasferisce. Come non coinvolgono più di tanto i bei sentimenti messi in mostra da The Big Sick, irreparabilmente svuotati dalla sinistra immaterialità del produttore, il più inquietante tra i mostri fin qui raccontati.