Per chi non ne avesse mai frequentato uno, i festival cinematografici di livello durano ufficialmente nove giorni, dal venerdì al sabato della settimana successiva, ma il primo giorno fa storia a sè. Si inizia alle sei del pomeriggio e si finisce all’una di notte. Sembrerebbe una passeggiata in un periodo in cui è normale fagocitare un’intera stagione di Netflix nell’arco di un weekend, ma – per quasi tutti – la giornata nasce presto, con una mattina di lavoro ed un pomeriggio di ferie rosicchiate ad orripilanti spiagge unte da creme solari.
Lo capisci dalle occhiaie e i maschi afrori di treno e sudore in sala: il primo giorno è il più faticoso perché si vivono due dimensioni opposte nello stesso momento, quella della vita di ogni giorno e quella della magica riconciliazione con la propria passione, che tanto assomiglia alla semi-coscienza del sogno. Il cervello, incapace di gestirle entrambe, arranca, si surriscalda e va in cortocircuito, così alla fine la si ricorda da un lato per il sopraggiungere di una leggera depressione, diavolo tentatore che ci vorrebbe legare al quotidiano, e dall’altro per quanto bene si riesca poi a dormire la notte. Praticamente si sviene a letto. Quando il tempo a disposizione sposa il desiderio si chiudono gli occhi con l’idea di poter addirittura sperare in un futuro migliore.
Tradizionalmente, nel primo giorno del Far East Film Festival i film non fanno impazzire di gioia, ma mica per colpa dei registi o degli organizzatori, ci sono le signore con la tinta fresca ai capelli e le collane di perle, ci sono gli ospiti illustri locali, c’è il sindaco e, assieme a loro, tutta una schiera di rappresentanza variegata che smussa con sfumature glamour-istituzionale quello che invece sarà lo zoccolo duro che rimpolperà per i prossimi dieci giorni il Teatro: gli adorabili Nerd di cinema.
Quando ci si trova davanti a una platea così varia non si può trovare un film che soddisfi tutti, si deve mediare tra le aspettative di entrambe le fazioni, proponendo quindi opere solide, leggere e politicamente corrette. Certo, i primi si annoieranno un po’ e i secondi rimarranno leggermente delusi, ma tutti alla fine usciranno con un senso di equilibrio. E lo so che “In medio stat virtus” vale per tutto tranne che per l’Arte e le Relazioni ma non c’è altra soluzione, il primo giorno di festival va goduto per quello che è: oltre ai film bisogna mettere nel calderone tutto, come il classico aperitivo in giardino, la coreografia in costume tradizionale, le bancarelle degli artigiani asiatici, il ristorante di Ramen, la mostra fotografica e i concerti nelle vie del centro. Tutto sommato il profumo che sale dai fornelli è inebriante.
Con la sala già gremita, prima ancora dell’annuncio del primo film della manifestazione, il palco semibuio rimanda agli occhi dei presenti una performance di percussionisti capace di ammutolire il pubblico colorato e allegro. Mi giro e vedo fremito, vita, occhi pronti e carichi per questa nuova maratona udinese. Si spengono di nuovo le luci e Sabri Love, la presentatrice, entra a passo agitato con un completo in versione sexy cerebrale. Quindi già sappiamo che la versione confetto ce la riserverà per la serata finale. Il proiettore è caldo, si inizia.
La megaproduione Steel Rain (강철비, Gangcheolbi) di Yang Woo-suk è il classico esempio di cinema di media fattura, prescindibile, giustamente inserito in prima serata per mediare il godimento di un pubblico disomogeneo. E’ tecnicamente eccelso (dopotutto la scuola coreana è la più preparata al mondo) ma si prende troppo sul serio e si gioca tutte le carte in tre lunghissime scene di azione. Sono di una bellezza da togliere il fiato, certo, ma al di fuori di queste si nota una storia di fanta-politica resa più noiosa della politica vera.
Aprirsi un mondo parallelo, in cui il leader nord coreano in fin di vita viene salvato dai sud coreani, per poi schiacciarlo sulle stesse dinamiche che regolano il mondo reale è una contraddizione fastidiosa. Nel primo weekend sono stati molto più fantasiosi e originali altri film basati su storie vere. Perchè come sempre non è tanto il cosa si dice ma il come lo si fa. Ai titoli di coda ero stanco, è obiettivamente difficile non soffrire l’eccessiva lunghezza del film.
Fa meglio il Malesiano di ottanta minuti Crossroads: One Two Jaga di Alan Smithee che chiude la prima serata. Più onesto e sanguigno, meno pop. Presentato come uno scottante documento che scoperchia il terribile vaso della corruzione della Polizia nei paesi del terzo mondo, si rivela in realtà abbastanza scontato. Chiunque faccia un giro veloce da quelle parti si accorge subito che ancor più degli assalti dei criminali bisogna stare attenti a quelli della polizia. Lo promuovo perché verso i trequarti ha un’impennata di odio e scaraventa sul pubblico un dolore che non mi ha lasciato indifferente.
Me lo sarei potuto godere di più se, oltre quasi metà sala, non si fosse addormentato anche l’addetto al volume, cadendo sulla manopola e garantendo al mio ottorino un centinaio di euro la settimana prossima.
Il secondo giorno non solo ci regala un sole che mancava a Udine da anni, caldissimo li in alto a chiamare l’estate a gran voce, ma anche i due film più belli e al tempo stesso più popolari del primo weekend: Veteran di Ryoo Seung-wan e Midnight runners di Jason KIM, sono praticamente identici, entrambi coreani, entrambi tecnicamente perfetti, entrambi molto divertenti e violenti. Probabilmente gli unici due che consiglierei per un domenica di pioggia. Saranno anche filmetti, ma fare filmetti belli non è facile, mi inchino quindi al talento dello staff di entrambi i progetti.
Certo che dopo quattro film di seguito fatti di cazzotti e pistolettate, è ora di cambiare. Mi inquieta soprattutto che vengano prodotte così tante serie e così tanti film coi poliziotti come protagonisti, probabilmente all’estero le cose sono molto diverse ma in Italia sono l’esempio principe della noia fatta persona, serpeggia infatti da sempre la voce che senza un -almeno – lieve ritardo mentale sia impossibile essere assunti nelle forze dell’ordine.
Nemmeno il tempo di finire la frase che arriva The Outlaws di KANG Yoon-sung, un gangster movie perfetto, perfetto anche nel sapersi far dimenticare quasi all’istante, capita a tutti i film in cui non si riescono ad esprimere nè lodi nè critiche. “Basta, non voglio più vedere film sulle gang criminali, per almeno quattro/cinque ore!” E’ con questo spirito che entro in sala con la faccia ormai scomposta in varie borse edematose messe a caso sul cranio per il film di mezzanotte: Gonjiam: Haunted Asylum di JUNG Bum-shik. Mi riprometto di uscire in direzione letto nel giro di quindici minuti e invece il dio del cinema mi accende gli occhi su questo interessante mix tra Blair witch project e Rec girato come se il regista fosse uno YouTuber armato di GoPro. La trama è quella semplice e stra-vista della casa infestata ma la resa estetica lo rende un prodotto perfetto per il sempre più numeroso pubblico dei canali video web. Il mondo di oggi è fatto per i giovani di oggi, chiunque pensi il contrario o è in malafede o un illuso.
La giornata della domenica inizia con me che apro gli occhi in stato confusionale, spaventato, in un letto sconosciuto e sfondato. Non ricordo che giorno sia, non so che ora sia o in che posto sia finita la serata. Ho iniziato a frequentare questo festival nel 2008. 10 anni fa vivere di caffè e alcolici senza dormire per 10 giorni costava fatica, ora è un lento suicidio, e di certo il film che ne è seguito non è stato d’aiuto.
Normalmente non guardo film con handicappati, ragazzini o malati. The 8-Year Engagement (8-nengoshi no hanayome) di Takahisa Zeze parla di una ragazzina che si ammala e diventa handicappata a ridosso del matrimonio. Il fidanzato passerà i successivi 8 anni ad accudirla, non prima di aver lottato contro i genitori che, non essendo uno di famiglia, lo volevano fuori dalla loro tragedia. La ragazza da vegetale arriverà pian piano, grazie a tutto l’amore delle persone care che le stanno accanto, ad essere una persona con gravi handicap che vive su una carrozzina. Immagino sia considerato un successo dalla scienza medica. Questo film ci insegna (se mai ce ne fosse ancora bisogno) che: prima di regalare un anello di fidanzamento occorre leggere per bene i risultati di scintigrafia, elettroencefalogramma, elettrocardiogramma e analisi del sangue complete, comprese le malattie venere, della partner.
Dopo l’ennesimo indugio pietoso sulla carrozzina, sulla pioggia, le lacrime e le gambe paralizzate sono uscito di sala, devo tenere alto l’onore della Cricchetta.
Dopo questa valanga pietosa, piaciuta praticamente a tutti, anche agli insospettabili, arriva la tamarrata rockeggiante City of rock di DA Peng. Inizia con risate grasse del pubblico a seguito di battute di infimo livello, come nemmeno quelle di un Boldi in pensione, ma poi ingrana, preme il pulsante rosso di “emergenza rock’n’roll” e le chitarre elettriche iniziano a farla da padrone, l’entusiasmo sale, fino ad arrivare allo scontro tra karatechi, grassone in fuxia e gang criminali. Finisce con una scena epica in cui rocckeggiano assieme centinaia di musicisti (vari guitar hero cinesi) tra batterie, bassi e chiatarre. Let’s rock!
L’erezione sessantottina viene subito smorzata dalla banalità fatta film della proiezione successiva, con tanto de finale voemmosebbene. La regista riesce a rendere piatta una storia che sulla carta sembrava avere un po’ di pepe: un marito gay che muore, un figlio che scappa di casa, la moglie che incespica sempre sull’orlo di una crisi di nervi. Peccato non ci sia un dialogo memorabile nè una scena memorabile nè un’idea memorabile. E’ mesto, piatto, superfluo. Ha poche idee, e tutte sbagliate. Gli applausi in sala per Dear ex di Mag Hsu & Chih-yen Hsu mi hanno ferito.
Su Side Job di HIROKI Ryuichi mi soffermo poco, dopo quaranta minuti di immagini che tipicamente vengono usate come riempitivi per i film porno (lei sale sulla metro, lei timbra il biglietto, lei scende dalla metro, lei cammina per strada inquadrata da dietro, lui si spoglia, etc..) sono uscito di sala. Immondizia che vorrebbe pure darsi un tono autoriale.
Gli ultimi due film del weekend avevano invece il loro perchè, il primo The battleship island di RYOO Seung-wan è un colossal di guerra sul trattamento da schiavi che hanno avuto i coreani sotto il dominio dei giapponesi durante la seconda guerra mondiale. E’ un film visivamente magnifico e filosoficamente superficiale. Pecca, come tutti gli altri film coreani sulla seconda guerra mondiale, nell’avere una logica buoni/cattivi invece di fornire un’esposizione dei fatti che dia allo spettatore l’onere del giudizio. Difficile comunque da non consigliare, ma facilmente dimenticabile. Il secondo e ultimo film è stata quell’ignorantissima tamarrata trash cinese intitolata Wolf Warrior II di WU Jing. Già dalle prime immagini dell’introduzione il pubblico ha iniziato a scaldarsi, applaudendo, ululando e incitando il protagonista-eroe-indistruttibile che salverà un gruppo di operai cinesi in pericolo all’interno di una fabbrica in Africa. Quella che si vede è ovviamente l’Africa immaginata dai cinesi, fatta di leoni che inseguono le jeep mentre le giraffe attraversano la strada e in cui la più grave minaccia sono gli islandesi, cioè quei quattro gatti consanguinei che se fatti espatriare riempirebbero a malapena Padova. Gli attori sono muscolosi incapaci di recitare ma sprigionano machismo e pugni quanto i quattordicenni emanano ferormoni dalle Allstar vecchie di due anni.
L’immagine indimenticabile che non lascerò mai scappare da kuore è quella dell’eroe che ferma un razzo con la rete ortopedica del letto. Mi ha commosso quasi quanto la maestria dei truccatori per evidenziare la malattia deturpante che infesta i villaggi: hanno masticato dei semi di melograno e li han sputati in faccia alle comparse, rendendo la scena grottesca.
Questo film ci insegna che: quando sei incazzato i proiettili non ti colpiscono e che nelle sfide tra due uomini contro venti, vince sempre la coppia. Tra decine di scene di violenza gratuita e il ridicolo patriottismo finale con l’uomo bandiera + musica pomposa col sole alle spalle, Wolf Warrior II si piazza al primo posto provvisorio come evento indimenticabile del Far east film festival 2018.
Siamo solo a terzo giorno, mi aspetto grandi cose!