Ho un taccuino le cui pagine s’increspano nei vortici della memoria, è una cassaforte piena di schizzi, annotazioni flash e testi compiuti. Qualcosa la vomito su questi lidi per alleggerirmi ma la maggior parte del mio mondo rimane li al buio. Il timore di non essere in grado di raccapezzarmi tra quei fogli spersi o di riuscirci e realizzare che valgono poco mi spaventa, perché non sono bravo a fallire. Mi viene molto più comodo convincermi di avere da parte una miriade di idee geniali piuttosto che rischiare di vederne l’inutilità. Il vero coraggio, si sa, per alcuni è mostrarsi, mentre per altri – i più esuberanti – nascondersi. E’ per questo che tirare fuori le review sepolte da un Torino Film Festival finito più di sei mesi fa è una sfida al mio orgoglio.
Pronti? via.
Ore 22, Il Vizio del Potere (The Front Runner) di Jason Reitman è un film superficiale. Ha però il grande talento di prendersi poco sul serio e usare musiche, ritmo, giochi di camera e frizzante stile giornalistico con fare scherzoso divertente e scanzonato. Non annoia. Certo, se si sta ad ascoltare la morale del film non può che venire spontaneo l’istinto di picchiare forte la testa su una bottiglia rotta di amaro San Simone ma, se ci si limita ad accogliere a cervello spento la storia della corsa alle presidenziali americane di un uomo sposato che ha commesso l’imperdonabile errore di innamorarsi di una sedicenne boccolosa, allora il film scorre veloce, non fa male e può anche mettere di buon umore. Come dice il mio amico: “è uno di quei film come solo gli americani sanno fare”. Allora che se lo guardino loro, aggiungo.
Dopo l’eccitazione cinematografica così drasticamente smorzata arriva la mezzanotte, gli occhi bruciano ma rimango in piedi perché sono certo che almeno l’Asia non può tradire, specie se in programma c’è un film di una delle stelle più brillanti d’oriente: Alpha, The Right to Kill di Brillante Mendoza. Mi tocca invece ingozzarmi a tarda ora di questa brodaglia da mensa, uguale a mille altri polizieschi/spaccio/vitaccia. Meno originale di così era difficile girarlo, anche tecnicamente parlando. Forse l’unica dote che gli rimane è l’onestà di mostrare la vita da strada di Manila senza infiocchettarla o renderla penosa. Talento che di certo non vale la promozione.
Pretenders di James Franco, è un grande film con un finale che ne rovina la bellezza. Investiga la relazione di coppia con un’onestà disarmante, esplicita quelle intime scabrosità che regolano i vissuti amorosi con una semplicità intollerabile. Racconta cose che si fanno, si pensano, ma non si dicono. James Franco, il professore universitario di Hollywood, garantisce sempre una qualità minima strabiliante, pur senza arrivare mai alle vette dei capolavori. Puntare su di lui è come investire sul mattone: aspetto ancora un po’ prima di bruciare Hollywood al rogo dell’Inquisizione.
His Master’s Voice (Az Úr hangja) di György Pálfi
Questo è il capolavoro del festival, a mani basse, senza nessuna possibilità di contraddizione. E’ un film con una carica artistica esplosiva, pieno di riferimenti e collegamenti a cose anche più grandi di lui. E’ carico di sotto testi, algoritmi cerebrali e idee visive geniali al limite della video arte. Fa rimanere estasiati sotto ogni punto di vista. Mescola i generi, li ribalta e li usa a favore di trama con coerenza. E’ folle e lucido, è povero e ricco, è quanto di meglio il cinema possa offrire al giorno d’oggi. Ogni singola scena è girata con la volontà di stupire, interessare e sorprendere. Mi vergogno tantissimo di aver conosciuto questo regista solo ora perchè entra di diritto nella cerchia dei più Grandi al mondo. Un talento incredibile. Ogni volta che il cinema diventa così potente l’emozione è incontenibile. Visione imprescindibile! Chi è arrivato a fatica a leggere fin qui può smettere, il Torino film festival 2018 è questo film.
Per gli appassionati di cinema invece ora è il turno di In Fabric di quel genio di Peter Strickland. Come chi è!? Basta dire che ha girato un capolavoro del calibro di The Duke of Burgundy per venerarlo a vita. Purtroppo questa sua ultima fatica è solo un esperimento provocatorio ovvero un folle (e forse autodistruttivo) esercizio di stile. La pellicola vuole replicare lo stile degli horror anni ’50-’60, con tutta la pochezza di mezzi, di grana della pellicola e tenerezza del caso. In questo, va ammesso, è una perla. Se fosse una puntata de Ai confini della realtà si chiamerebbe: “Il vestito che uccide”. E’ un’opera sfiziosa e gustosa quanto si vuole, molti critici ci andranno a nozze e conosco personalmente miriadi di obesi che si masturberanno contando tutti gli innumerevoli riferimenti ai vecchi film contenuti in questi 90 minuti. Ma io no. L’ho trovato noioso, pur tecnicamente impeccabile. La cosa che mi ha fatto più male è stato vedere quante scene geniali e quante trovate siano state sprecate a casaccio in questa pellicola. Sarebbe bastato prenderne un paio e costruirci attorno un film intero invece di rovesciare il catino stracolmo sul letamaio. Il regista ha talento da vendere ma deve essere meglio indirizzato, speriamo trovi un produttore in grado di contenerlo e di fargli focalizzare quello sguardo pantagruelico.
A differenza di In Fabric, Le tombe dei resuscitati ciechi (La noche del terror ciego) di Amando de Ossorio è un vero film degli anni che furono. La povertà della recitazione, dei mezzi tecnici, della trama, dei costumi e del trucco mettono tenerezza. La sala inizialmente si è divertita parecchio riempiendosi di risate e sfottò, poi, però, dopo lo shock iniziale, tutta quella bruttezza è diventata narcotica e, girando la testa, è stato difficile trovare qualcuno sveglio nelle file posteriori. Consigliato solo da ubriachi assieme ad amici ubriachi, altrimenti meglio dormire.
Mandy di Panos Cosmatos è stato il Film Evento® trash/spletter/horror. Se artisticamente quello di György Pálfi è su di un altro Pianeta, questo ha fatto brillare gli occhi a tutti. Personalmente, senza Mandy, il weekend a Torino avrebbe avuto molto meno senso: tutte le ore di sonno, i pranzi veloci, i treni unti e gli occhi rossi spariscono di fronte alla gioia provata per questo “Non aprite quella porta meets L’armata delle tenebre”. Il cattivissimo killer tossico vestito di chiodi con tanto di zip sulla parte posteriore dei pantaloni in pelle mi ha praticamente eccitato sessualmente. Ogni scena è girata con gusto e grande fotografia. Alcune trovate resteranno indelebili nella storia del cinema.
L’ultimo film visto prima di tornare sull’Italo direzione Venezia è Angelo di Markus Schleinzer. E’ uno storico, drammatico, austriaco, in costume e diviso per Atti. Dura centoundici minuti che sembrano cinque ore. Praticamente uno svuota-sala fatto e finito. Per questo sono sorpreso del fatto che ad oggi, dopo mesi, me lo ricordi molto bene grazie ad un finale spacca-anima che definire solo efficace è offendere la settima arte. E’ piuttosto il colpo da maestro che mi ha colpito di più negli ultimi anni. Quei tre minuti non solo giustificano ma fanno brillare tutta quella lentezza, ermeticità, rigidità, geometria impassibile e noia iniziale. Rendono il ritmo da bradipo necessario, perchè il dolore può essere acuto o crescere lentamente e diventare cronico, come in questo caso. Il momento da ricordare:
la ragazza bianca, pietra dello scandalo, amante del Negro Angelo, gli fa una domanda impertinente a cui per tutta risposta molla una scoreggia mentre è seduto sulla di lei pancia
Dopo quella scena si vede lei incinta, e la cosa non può non essere voluta. Difficile da giudicare e incasellare, consigliato, ma suggerisco di andare avanti veloce nei primi 45 minuti.
Di nuovo a casa, coi polmoni pieni di ossigeno. La vita torna ad avere senso dopo le tante ore che hanno sposato il desiderio. So già che il domani, piegato sul fatturato, ci metterà pochissimo a demolire questa gioia spensierata così malvolentieri abbandonata.