Dopo esser diventato il mantra della Cricchetta durante la Mostra del cinema di Venezia 2018 (Minervini? Minervini? – nessuno di noi era riuscito a vederlo perché rimbalzati a ogni proiezione) non potevo certo lasciarmi sfuggire WHAT YOU GONNA DO WHEN THE WORLD IS ON FIRE? di Roberto Minervini. Un bellissimo bianco e nero racconta la comunità nera di Baton Rouge dopo degli incidenti che sono costati la vita a dei ragazzi di colore. Come sempre, il regista si mette a completo servizio della storia che sta raccontando, usando un punto di vista asettico e neutro e la tecnica documentaristica. Tuttavia, rispetto ai film precedenti mi è parso che, occupandosi di una questione molto complessa come il razzismo, abbia un po’ perso la sua consueta imparzialità. Sono infatti più convincenti le immagini relative alla sfera privata dei protagonisti rispetto a quelle delle rivolte e delle recriminazioni delle nuove Black Panther. Sicuramente esiste un razzismo diffuso, ma diverso da quello degli anni Sessanta: la persone che vengono riprese nelle proteste, oltre che ad essere nere, sono anche povere, cosa secondo me più identificativa al giorno d’oggi. Mi piacerebbe che l’ambientazione del prossimo film di Minervini fosse l’Italia, sarei curioso di vedere il suo ritratto cinematografico di ciò che sta accadendo all’interno delle città, della spaccatura tra residenti e immigrati. Mi ha fatto molto ridere che nei titoli di coda venga dato risalto al finanziamento da parte del Friuli Venezia Giulia, ora governato da Fedriga, salviniano di ferro: chissà come la prenderebbe a vedere il nome della sua regione tra i promotori di un film incentrato interamente sulle persone di colore. Ma in effetti non credo vada granché al cinema.
LETO di Kirill Serebrennikov
Un film giusto per le ragazze rock indipendenti che siamo (cit.)
La trama romanza fatti veramente accaduti, vale a dire le vicissitudini di Viktor Coj, autore musicale di assoluto culto in Russia ancor oggi, venerato e celebrato come una delle più grandi icone del rock e dell’arte in genere. Siamo nella Pietroburgo di inizio anni ottanta, quelli dei primi fermenti punk, coi gruppi che cercavano il beneplacito del partito per poter esibirsi in concerto.
È un film sulla musica, su come il fenomeno del punk e della new wave abbia colpito in pieno anche l’Unione Sovietica del tempo, creando similitudini apparenti col mondo occidentale tanto vituperato. Direi un grande film, con grande musica e molta empatia perché, come dice il Gambillo, le vere cose romantiche non riguardano l’amore.
L’ottimo bianco e nero contribuisce a creare un’atmosfera retro. La canzone Leto, che dà titolo al film, è stupenda.
Mi aveva spaventato l’idea di un festival in pieno inverno per timore delle code per l’accesso in sala, invece scopro con piacere che quasi non si formano e che comunque si aspetta sempre al caldo. Trovo ancor più funzionale il fatto che ogni sede (Dolen, Schowburg, Cinerama, Pathè, Kino, Lanteren Verten) abbia il suo caffè ed il suo ristorantino dove si può mangiare decentemente, senza dover ricorrere sempre a panini liofilizzati, come accade spesso in altri Festival. E soprattutto c’è sempre l’angolo Gin Tonic, fondamentale.
DREISSIG di Simona Kostova
Un gruppo di amici si ritrova a Berlino per il trentesimo compleanno di Ovi, giovane scrittore, che in realtà, più che scrivere, preferisce passare la giornata a bere e fumare. L’ inizio è rohmeriano, girato nelle ore diurne, con uso prolungato della telecamera fissa che riprendere dialoghi sull’esistenza (piuttosto noiosi, ad essere onesti). Verso sera si trasforma nella puntata dedicata a Berlino di “Misteri della notte”, programma televisivo di più di 20 anni fa. Il gruppo non fa che girovagare tra locali di diverso genere, più o meno scandalosi, dove la solidità dell’amicizia tra i sei protagonisti comincia a vacillare paurosamente, fino a sfociare in vere e proprie scenate, non proprio comprensibili. La cosa più interessante viene detta da un ragazzo, conosciuto per caso verso notte inoltrata:
“Una volta, dopo cinque birre, quello che volevo era una figa, adesso dopo cinque birre, tutto quello che desidero è sposarmi”
MEMORIES OF MY BODY di Garin Nugroho
Juno, ballerino di teatro Legger, racconta la storia della sua vita e, attraverso questa, le vicende del suo paese.
Impostato come un film contenitore in cui presenziano teatro, danza e rituali magici, è spesso intervallato da esilaranti canzoncine anni Sessanta che alleggeriscono situazioni a volte troppo dense. Anche perché, concentrandosi incessantemente sulle (troppe) peripezie di Juno, il racconto risulta molto appesantito.
I tratti melodrammatici sono indovinati, soprattutto la storia d’amore tra il ballerino (che per l’occasione diventa sarto) ed il pugile.
Alla fine l’impressione che resta è che ci siano richiami continui ad una cultura e ad una realtà, quella giavanese, che sfuggono completamente allo spettatore estraneo a quel mondo. A tratti bello, a tratti scontato: non mi ha convinto del tutto. La parte dell’infanzia sicuramente la più riuscita.
Al prossimo anno!