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Diciamo no ad elettrostimolatore, vibromassaggiatore e pedana vibrante! C’è #Venezia74 per tornare in forma

di il 08/09/2017
 

Siamo oramai nel pieno del festival, i film si susseguono a rotta di collo, 9 sale per 14 ore di programmazione l’una. La gente ha occhiaie che spaventano il silenzio e la mattina appena mi sveglio non riesco più a ricordare che giorno della settimana sia nè tanto meno gli impegni in agenda. Ci vogliono una decina di minuti prima di tornare in mè. La pancia continua a scendere, tirare avanti a vizi mi sta finalmente rimettendo in forma.

Al Lido, il comportamento dell’esercito con l’accredito al collo è talmente prevedibile che risulta comico. Lo sguardo da “lei non sa chi sono io” che un po’ tutti provano goffamente a mantenere all’interno della Cittadella del cinema è uno status che da un lato mi fa sentire a casa, da un altro mi ripugna ma al tempo stesso genera un’intima tenerezza. Perchè io so chi c’è dietro quegli occhiali a goccia comprati in saldo online: gli accrediti color verde strappano i biglietti al cinema parrocchiale, quelli arancioni scrivono su un blog nei ritagli di tempo tra una consegna di pizza e un abito da imbustare, i blu sono operai della Fincantieri coi jeans a mezzo culo che ogni tanto fanno le foto agli eventi organizzati dal comune, i rossi invece sono i paraculo con l’amico giornalista. Fine. Anzi no, raramente vedi davvero anche qualche giornalista. Una bestia rara di cui nessuno tiene conto. Questa accozzaglia umana si dà un tono al pari delle ucraine di due metri coi vestiti seta pastello che passeggiano di fronte al tappeto rosso ad ogni ora del giorno. Ed è bello che sia così perché senza il Glamour se ne andrebbe una grossa fetta dell’unicità dell’evento stesso. Di jeans e magliette ne vedo già abbastanza durante il resto dell’anno.

Il mio six-pack veneziano, negli ultimi giorni, si è forgiato a suon di:

Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri) di Martin McDonagh.
Se lo avessero girato i fratelli Cohen non avrebbero commesso gli stessi errori, non avrebbero perso il senso della misura tra commedia demenziale e tragedia e saremo qui a gridare al miracolo. Ma l’ha girato Martin McDonagh e sembra scritto da uno stand-up comedian di second’ordine: cosi com’è avrebbe avuto più senso recitato da Ben Stiller. Il gruppo di nerd nella fila dietro la mia ha riso per ogni singola battuta, e il film certo non ne risparmia. Non dico che non ce ne fossero di divertenti ma, ragazzi, per l’amor di dio, meno YouPorn e meno cartoni animati giapponesi d’ora in poi, ok?
Resta il fatto che il film non mi ha annoiato e, vista la mal parata generale, lo consiglio. Dopotutto miscugli di generi così diversi sono tentativi che regalano linfa vitale a quest’arte. Anche quando sbagliano. Perchè a volte l’intento supera il risultato.

Su Caniba di Lucien Castaing-Taylor and Véréna Paravel, il film documentario sul cannibale giapponese, ho già parlato esaurientemente. Per una volta ho addirittura scritto sul film piuttosto che dei cazzi miei. Un evento quindi. E’ infatti un apice della mia Mostra Internazionale d’arte cinematografica di quest’anno.

Oggi però era il giorno di Hirokazu Kore’eda con The Third Murder (Sandome No Satsujin). Il divo giapponese, attesissimo dai fan, porta sullo schermo per la prima volta un thriller dopo tante delicate storie di famiglia. Gli amanti del cinema asiatico sanno quanto l’attesa di un evento del genere generi eczemi, forfora, perdita di capelli e impotentia generandi temporanea. Entro in sala con gli occhi dell’amore, sicuro che non si sarebbe fatto scappare l’occasione per prendersi la rivincita dopo i tanti che lo accusavano di girare da sempre lo stesso film con titoli diversi. Invece prende il thriller e prova a infarcirlo di troppa spiritualità, cerca la profondità nel non detto ma eccede e il meccanismo si inceppa, i messaggi tra le righe si fermano sul proiettore prima di arrivare agli spettatori. Fa annusare un sottotesto che in realtà non passa mai. La tecnica registica è indiscutibile, certo, stiamo parlando di uno dei più grandi esperti al mondo, ma dopo questo tentativo credo che abbia definitivamente paura di esporsi. Perchè forse ormai, sotto quella nebbia di significati confusi, quello che rimane da vedere è ben poco. In ogni caso i suoi capolavori del passato, primo fra tutti Nobody Knows, sono ancora li e brillano oggi come sempre.

Una storia d’amore omosessuale tra un uomo e il suo infasil

Arriva il vento della sera e il vaporetto di mezzanotte si trasforma in quello delle otto di mattina senza che me ne renda conto. Quando i grandi del 2017 deludono occorre un rifugio, e niente più di un classico del passato può rimarginare le ferite di un amante del cinema dal cuore spezzato. Entro così nel mio pronto soccorso privato per vedere Batch ’81 di Mike de Leon, un film cult filippino vagamente americaneggiante che racconta di violenza e nonnismo arrivando infine ad una più ampia metafora della situazione nazionale. Devo purtroppo ammettere che il film, negli anni, ha perso tutta la sua forza e anche quella metafora politica di cui si fa bandiera è andata perduta  tra le pieghe del tempo. Rimane una scena, quella degli studenti che si travestono da donna per fare uno spettacolo grottesco e psichedelico. Un musical allucinato e una visione obbligatoria.

Il bagno senza finestre nella sala degli specchi

Depresso da epoche che fanno a pugni con una visione moderna entro nella sala piccola, quella con le sedie in stile sala d’attesa d’ospedale, per vedere il coloratissimo film danese pieno di bruttine imbellettate. E’ preceduto da Malamenti di Francesco Di Leva, un cortometraggio italiano, o meglio, doveva essere in italiano ma non si capiva niente, credo fosse in un qualche dialetto del Regno delle Tre Sicilie. Attendo pazientemente la fine giocherellando con Whatsapp, sento un paio di applausi, capisco essere quelli dei parenti presenti in sala. Chi ha confezionato questa vergogna di 13 minuti sappia che ha messo in imbarazzo la nazione per la milionesima volta. La sala rimane buia, sta per iniziare Team Hurricane e vedo alzarsi tutti quelli che hanno applaudito: la mamma, la cugina e le zie del regista se ne tornano a casa. Come diamine fa ad arrivare certa immondizia fino a Venezia? Si deve pagare? Si deve andare a letto con qualcuno? Perché anch’io nel mio Samsung ho installato l’app Prisma, eh!
Il lungometraggio danese di Annika Berg, non vuole essere da meno e la regista decide di giralo col Nokia 3110. Sembra una specie di Grande fratello, misto all’immaginario collettivo sulla comunità nerd degli Youtubers. La qualità dell’immagine e le scene che appaiono fanno invidia ai miei filmini del compleanno. Sembra un documentario ma non lo è: è Maria de Filippi elevato al quadrato. Quando inquadra una delle ragazze alla moda che con fare commosso dice che non ha paura di niente tranne che di sè stessa il vaso è colmo. Sono uscito di sala dopo 5 minuti, e sono stato uno degli ultimi eroi a resistere. Giornata da dimenticare, ma non demordo, domani è il giorno del mio Aronofsky e non sarà la sveglia, non saranno gli occhi che bruciano e non saranno le vecchie che litigano per i posti da disabile in vaporetto a distrarmi: dopo Noah del 2014, non potrà aver fatto di peggio.

Le mammelle che sbrodolano sotto il reggipetto. Le attrici dell’orribile Team Hurricane

 

Ho una teoria, da quando tanaka è diventato un divo internazionale, alcuni registi fanno film incompleti che trovano compimento solo dopo la sua review. Quindi, per ora è impossibile dare un vero giudizio e capisco che Mother! (applauditissimo al Pala Biennale) possa far incazzare. È tipo Berlusconi: è stato l’uomo più potente della nazione ma anche (giustamente) il più preso per il culo. Lo consiglierei, ma non è tra i suoi film più riusciti. Almeno non è noioso. Diciamo che è tutto tranne che mediocre. La prima parte è un omaggio a L’angelo sterminatore, poi diventa una metafora sul processo di creazione artistica ma finisce in un delirio che immagino metafora nella metafora sulla natura violenta dello spettatore nei confronti dell’opera artistica. Tanaka ne farà un gran pezzo, e  in quel momento il film diventerà un capolavoro. Tra i migliori del festival.

Lo stupro di Recy Taylor (The Rape of Recy Taylor) di Nancy Buirski è un documentario sulla condizione delle donne di colore americane dopo il periodo della schiavitù. Un momento storico in cui, se un uomo bianco voleva fare sesso, andava in città come un cacciatore va nelle riserve. Quando quei sette ragazzi hanno violentato quella donna non vedevano la moglie e madre che era, ma un animale che doveva pure ringraziarli. Da quella sera, dopo la violenza e le mutilazioni, Recy perderà la possibilità di avere altri figli ma il suo caso esplose e oggi fa parte di quel lungo percorso che ha cambiato negli anni la condizione degli afroamericani negli Stati Uniti. Il documentario è delicato e prova  non scadere nel pietoso. C’è un’immagine che non mi tolgo dalla mente: i bagni nella stazione dei treni solo per i bianchi che da un lato costringevano le persona di colore ad espletare i bisogni sui cespugli e dall’altro forniva la scusa per farli definire bestie da chi poteva usufruirne.  E’ questo il cerchio del dolore che ancora oggi brucia.

La delegazione di The rape of Recy taylor

 

 

Fortunatamente la giornata finisce con My generation di David Batty, il film documentario sulla rivoluzione pop degli anni sessanta a Londra: Beatles, Rolling Stones, la minigonna, Michael Caine, le donne coi capelli corti, gli uomini coi capelli lunghi, la droga, Twiggy, i mods, le freddure divertentissime, l’invasione dei giovani in una Londra che da grigia diventa arcobaleno, il mondo che cambia, lo sbarco in America. Più che un film è una festa serrata ed entusiasmante lunga novanta minuti. La settantenne accanto a me ad un certo punto non ha resistito: ha buttato a terra la stampella che le era d’impiccio per ballare. L’ho amata e sono uscito di sala con un entusiasmo insperato. Per la prima volta nella storia la redazione tutta è stata concorde nel dare 6 stelle su 5 (!) a questo film-evento. Immagino che visto in salotto fra qualche mese apparirà come non più che uno spot tra il telegiornale e il film della sera.

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