17/04/2019
Caro diario,
mi rimani solo tu. Ho deciso di rifiutare di nuovo l’invito a presentare lo spettacolo di stand-up, so che il pubblico non è pronto e, piuttosto di vederlo ingrigire e indignarsi, preferisco starmene qui. Tanto io ho te. Solo tu sai capirmi, senza di te le ossessioni mi avrebbero già divorato. In queste pagine posso essere sincero.
Voglio raccontarti di questi ultimi giorni. Lunedì scorso, come ogni lunedì, stavo raccogliendo le mie cose in una borsa di plastica per trasferirmi nel terzo mondo in cerca di fortuna quando, come un fulmine a ciel sereno, è squillato il telefono. Il mio telefono non squilla mai.
– Pronto? Parlo con la redazione della Cricchetta del cinemino?
– Beh, si, con quello che ne resta…
– Volevo invitarla ad un evento promozionale organizzato dall’Edera Film Festival…
Il momento è solenne: è il primo invito telefonico che riceve questa antipatica della Cricchetta da quando è nata. Rimando l’emigrazione alla prossima depressione.
Treviso, Fondazione Benetton Studi Ricerche, un elegante edificio in centro. Arrivo in anticipo, indosso un paio di vecchi pantaloni blu scoloriti e di due taglie sopra la mia, devo buttarli. Perchè li avevo comprati? Sbircio tra le porte a vetro ma non vedo nessuno, forse solo un paio di quelle che sembrano hostess, irrigidite dentro camicie e tailleur. Sofisticate silhouette. Devo decidere se aspettare nervosamente li fuori o fiondarmi in un Bar e scelgo ovviamente l’alcol. Il tempo passa lisergico, mi sfreccia accanto la bici di un ragazzo dello staff dell’Edera Film Festival, lanciato come nemmeno all’ultimo chilometro del Giro d’Italia. Sudatissimo. Segno che ora sono in ritardo, devo muovermi e accelero il passo.
Dentro l’atrio addobbato a festa sono pronto a mescolarmi nel prevedibile torrente di corpi ma la situazione è cambiata poco: brusio dimesso, qualche colpo di tosse, un gruppo minuto di signori distinti, silenziosi e avanti con gli anni. Qualche mano si tende verso la mia con postura sicura ma intento incerto. Fatico a decifrare il momento. Cosa ci faccio qui? Vivo l’orribile sensazione di sentirmi trascinato dalla vita più che determinato, ma il tavolo col prosecco di benvenuto mi rincuora. I volontari del festival sono sorridenti, gentili e si contraddistinguono da una formalità fuori dal comune, non certo casuale, evidentemente l’occasione lo richiede. Chiedo notizie sulla selezione dei lungometraggi che verranno presentati nella seconda edizione: “Eh, è una guerra…”, mi dice il Padre del Festival, e io lo capisco.
Visioni Verso Edera Film Festival 2019 è l’evento d’intermezzo tra la prima sorprendente edizione del concorso per giovani registi sotto i 35 anni – gestito con competenza e passione – e la seconda programmata per fine luglio. Mostrare i muscoli a sei mesi dalla chiusura della manifestazione principale ci sta, serve a mantenere vive le braci dell’interesse, a sbandierare il proprio orgoglio di esistere e marcare la presenza sul territorio prima che il ricordo svanisca e le innumerevoli distrazioni abbiano la meglio. Il programma della serata prevede un intervento del direttivo per presentare le novità in arrivo, la visione di due film già proiettati all’interno del festival lo scorso anno e il Q&A finale. Riassumendo, sono quindi qui seduto in attesa di vedere due Brevi-Documentari-Italiani®, praticamente la sintesi di tutti i generi cinematografici che in genere evito. La sedia di legno inizia a scottare ma, vista la straordinaria qualità dei lungometraggi selezionati in concorso durante la prima edizione, sono pronto ad essere sorpreso di nuovo.
L’incontro è iniziato da pochi minuti e mi vibra un WhatsApp del mio acuto, autoritario, vicino di casa: “Scendi che ci vediamo un intervento di TED Talk sul 55 pollici via YouTube“. Per tutta risposta gli spedisco la foto:
Lui spontaneamente: “Mi sembra una cosa triste, sei andato all’Escape Room senza di me?”
E’ il solito codice ironico e sbeffeggiante che ci contraddistingue, ma stavolta mi ha fatto riflettere, perché è impossibile non notare che qualcosa in questa sala conferenze non sta funzionando. Non siamo a Cannes, certo, ma guardo e riguardo la foto, elaboro. Che ci sia una nota stonata è indubbio, ma qual è? Cosa sta andando storto? Il Centro Studi è un edificio di pregio, elegante, perfetto. La gestione del festival è dolcissima. Quindi cosa? Forse la piccola sala mezza vuota? Le slide con sfondo bianco? Le sedie per gli ospiti posticce, con un tavolino sproporzionato? L’assenza di una qualsivoglia scenografia? Perché, poi, li sul palco sono seduti? Sono stanchi? Il problema è l’illuminazione? L’atmosfera? O La serata lavorativa infrasettimanale che regala sempre occhiaie di cemento? Forse tutto o forse niente, ma il sedile già caldo ora è appuntito. Fortunatamente la situazione si sblocca con la proiezione dei due corti, si spengono le luci e, se prima c’era qualcosa di sbagliato, ora è sparito. E’ una sensazione che vivo da sempre nell’attimo in cui inizia un film. Forse per questo continuo a vederne.
Il primo documentario è un prodotto amatoriale girato alla maniera dei vlogger, personaggi chiave dell’epoca moderna che da dieci anni a questa parte si sono imposti al punto da creare una cultura d’immagine che ha fatto proseliti. Non varrebbe la pena spenderci più di due righe ma ho tanto tempo libero. Tecnicamente il film appare più che altro come una di quelle demo automatiche che si vedono nelle TV all’interno dei grandi magazzini, una di quelle che mostra le potenzialità delle varie strabilianti opzioni disponibili in una costosa telecamera digitale. A livello di contenuti invece devo dire che ha un paio di momenti interessanti, perché il protagonista scelto è talmente semplice da risultare in qualche modo vivo in un mondo di morti. Parlo di un pescatore vicino alla pensione che si trascina malinconicamente all’interno di luoghi semi abbandonati, destinati a cambiare o a essere mangiati dal degrado. Lo vedi camminare paonazzo mentre presenta all’occhio della cinepresa la sua quotidianità o mostra i cocci di una professione in via d’estinzione. Restano alla memoria sia il rammarico di quando parla della figlia, sua delfina prediletta, e di come abbia preferito altro alla pesca, che l’incoscienza nel dire che in vita sua non è mai uscito da Burano, la piccola isola di Venezia in cui vive e lavora.
La regista in sala non c’è, al suo posto è venuto il padre che del film sa poco/nulla, rendendo la sua presenza decisamente superflua.
Vengo a sapere nel Q&A che il film è stato girato in 4 giorni, e si vede.
Il secondo documentario è qualitativamente superiore ma in qualche modo speculare al primo, è infatti sontuoso nell’immagine – dai toni tutto tranne che amatoriali – ma modesto nella scelta del soggetto. Il dramma dell’alluvione e i riti di campagna non si fondono nel virtuosismo sperato, funzionano poco e sono banalmente al servizio di un impatto stilistico capace di comunicare una rarissima quanto indispensabile onestà. Inquadrature statiche, composizioni oculate, silenzi eloquenti. Il regista mi è piaciuto, non avrà il genio ma ha metodo, una buona mano e passione da vendere: non può essere che così se, come racconta lui stesso, per permettesi di fare cinema deve lavorare come bagnino. Se, in futuro, avrà la fortuna di avere tra le mani un copione scritto da qualcuno di talento ne potrebbe uscire quell’opera artistica di rilievo che manca all’Italia come acqua nel deserto. Poi purtroppo decide di parlare al microfono, scopro così che sta cercando il suo prossimo soggetto su Google. La carenza di idee assieme alla voglia di essere originali e la difficoltà di trovare un argomento da sviscerare formano una miscela esplosiva, dalla quale potrebbe restare travolto. Trovarsi a cercare su Google un soggetto che si crede capace d’inserirsi in un possibile squarcio del mercato è una deriva a cui non si dovrebbe mai arrivare. È un po’ come i miei compagni del corso di fotografia che, quando gli si dava una consegna (ad es. una natura morta), andavano su Google a cercare esempi da copiare. Dico, su Google, cioè rovistando a caso, mica andavano in cerca nei grandi libri di fotografia. Posso anche perdonare il voler copiare dai maestri, ma se si chiudono occhi allungando le braccia alla cieca sperando di non inciampare nel burrone della Rete, la probabilità di fare centro è vicina allo zero. Le idee sono il gas di un cervello frizzante, scalpitano e fanno male se non le si fanno uscire. Non si ficcano dentro a forza. Se per guadagnare l’ispirazione serve Google allora è il momento di cambiare passione.
Vengo a sapere nel Q&A che il film è stato girato in 6 settimane, e si vede.
Come sempre, urge stendere un velo pietoso sulle domande fatte dal pubblico. Una su tutte, indirizzata al regista del secondo documentario, che inizia con l’infelice: “Voi che siete nel mondo del cinema…“, viene freddata ancor prima di essere conclusa con un proverbiale: “Io non faccio parte del mondo del cinema“. E’ stato il momento più sincero di tutta la serata. L’ho amato. Sarebbe ora che i moderatori capissero che passare il microfono al pubblico è una pratica sconsiderata che porta, nel migliore dei casi, a situazioni imbarazzanti e nel peggiore ad annoiare.
Se, come in questa volta, il Q&A si trasforma in una chiacchierata distante, di pura piaggeria, volta a riempire un momento necessario più che il voler appassionare, allora è solo tempo rubato al sonno. Se la superficialità della discussione è dovuta a quella dei film allora perché non improntarla sul perché ci sia così poco da sviscerare, facendo riflettere i ragazzi sull’effettiva profondità delle loro opere?
Oggi mi sono sentito fuori posto da subito ma, quando infine dal palco arriva il saluto ai genitori (e alla zia) presenti tra il pubblico, mi sono visto come il cugino indiano appena arrivato in città in una cena tra amici italiani e ho avvertito l’urgente bisogno di allontanarmi, realizzando definitivamente che gli eventi a scopo promozionale e/o auto-celebrativo, semplicemente non fanno per me.
Tuo, Mali