Presentato Fuori Concorso all’Edera Film Festival 2019, “Per quello che sono” del trevigiano Alberto Girotto non è un semplice docufilm – né lo si può paragonare a un documentario tradizionale – ma condivide il registro narrativo del primo e la dimensione didattica del secondo. Quando se ne distacca, approda in un territorio sconosciuto dove s’intravedono il principio, lo svolgimento e la conclusione di una parabola.
Perciò, in segno di buona volontà, adotteremo criteri diversi da quelli che solitamente si adoperano per “La grande arte al cinema” o “I grandi della letteratura italiana”.
L’opera si concentra sulla figura del Vate Gabriele D’Annunzio.
A differenza del precedente “Animata Resistenza” (Leone Venezia Classici 2014, diretto insieme a Francesco Montagner che l’ha anche sceneggiato), adotta però un approccio meno personale e quasi super partes.
La decisione appare sensata, visto lo spostamento di focus dall’animatore Simone Massi – artista vivo e vegeto caratterizzato da uno stile di vita controcorrente – al poeta ormai defunto, col tempo incarnatosi in figura mitica, criptica e soprattutto, stereotipica.
Più che da una sinossi vera e propria, il film è tenuto insieme da un filo conduttore: il giovane Marco rimane affascinato dai versi di D’Annunzio e decide di approfondire, prima ancora che il poeta, l’uomo (super? Uber?).
In quanto scettico compulsivo, lo fa ponendo interrogativi funzionali all’operazione di scavo e annotandoli sul proprio taccuino con dedizione a dir poco nevrotica, quasi che l’imperativo di stendere un profilo psicologico dell’artista – di capirlo, se vogliamo – sia la sua unica ragione di vita.
Ne emerge il viveur profondamente egomaniaco, a tratti eccentrico, che abbiamo imparato a conoscere sui libri di testo, caratterizzato da un antagonismo nei confronti di tutto ciò che
è morale, conforme, imposto dall’alto.
L’idea di descrivere un D’Annunzio diverso da come lo conoscono i più prende forma soprattutto grazie alle lettere donate dall’imprenditore Martino Zanetti (patron della Hausbrandt, azienda produttrice del film e sponsor del Festival) alla Casa-Museo del Vittoriale, nonché ai succosi dettagli con cui il suo Presidente Giordano Bruno Guerri, massima autorità in materia e oratore consumato, intrattiene il protagonista.
Interessante, a questo proposito, è la vocazione per il Thanatos che emerge negli ultimi scritti del poeta, popolarmente più incline a elogiare le passioni carnali che a indulgere con compiacenza sull’idea di tirare il calzino. Un lato decadente che ben si sposa con il suo amore per la figura femminile.
Tuttavia, il film non si scontra quasi mai con la prospettiva di attuare un processo di revisionismo, preferendogli un furbo elogio della conoscenza – che a conti fatti, si rivela sia il miglior pregio che il maggior difetto dell’opera. Un punto di vista alternativo, mirante a scardinare i diffusi preconcetti sul personaggio, avrebbe garantito più margine per un’interpretazione personale della figura dannunziana (non “giusta” o “sbagliata”, semplicemente “diversa”), ma Girotto preferisce consegnarci un protagonista inanimato che agisce da catalogatore di concetti, più che da catalizzatore di eventi.
In una improbabile spirale di Nolan, abbiamo un personaggio storico che funge da medium per un personaggio fittizio che a sua volta funge da medium per un regista, e dopo l’ennesima inquadratura sulle celebri lettere impreziosite dalla grafia sghemba del Vate, ci si chiede se i nostri turgidi e fumiganti testicoli fungano da medium per qualcosa di freddo e appuntito.
Malgrado alcuni ingorghi sporadici, comunque, il montaggio funziona, col tono che rimane coerente nella sua alternanza di citazioni, monologhi e passeggiate all’aria aperta.
Ci viene ricordato che il poeta/parlamentare, pioniere dell’assenteismo, aveva preso posizione – con un certo ritardo, aggiungeremmo – contro la dittatura fascista (un vero momento storico la sua leggendaria camminata da destra verso sinistra… salvo poi tornare indietro) e contro lo stesso Mussolini (quando gli mise davanti uno specchio su cui stava scritto, in modo neanche troppo velato, che era un saltimbanco da quattro soldi), convogliando nella nota Costituzione di Fiume diverse istanze di stampo non soltanto libertario, ma fortemente inclusivo nei confronti delle minoranze.
Viene ipotizzato, tra le altre cose, che sia stato proprio il suo stile di vita poco morigerato ad attirargli le antipatie dei buonisti™, e ci si domanda come avrebbe vissuto se fosse nato nella nostra epoca (noi propendiamo per un abominio a metà strada tra Oscar Giannino e Andrea Diprè, con un pizzico di Ferrara).
Del resto, Guerri sa bene come “vendere” il personaggio, essendosi prodigato per trasformare il Vittoriale in un’attrazione a tema dove svariati prodotti di merchandising hanno trovato ampia vendibilità – in barba alle raccomandazioni del Vate di lasciare inalterata la sua ultima residenza.
Spirito adattivo da videomaker, Girotto conosce le tecniche del linguaggio filmico, e ne dà prova dipingendo ambienti evocativi riconvertiti in spazi di meditazione zen, coadiuvato da un sound design in pieno stile “Jacob’s Ladder” che spinge sulla dimensione psicologica del protagonista e sui suoi processi mentali.
Ed è proprio identificandosi col protagonista che l’autore sceglie di rifuggire una qualunque elaborazione del soggetto: per Marco, il Poeta finisce con l’assumere il ruolo che era stato delle sue Muse – ossessione ridondante e feticcio messianico – senza trarne un risultato che si discosti dall’emulare, nelle parole e nei gesti, l’altrui ricerca del piacere.
Mi ha ricordato di quella volta che sono andato a vedere una mostra: tempo un’oretta avevo maturato un paio di opinioni, e in procinto di uscire ho chiesto al guardasala che ne pensasse, lui, a riguardo (perché sono fondamentalmente un rompipalle), ma quello mi ha risposto che non ne aveva idea. Non gli interessavano le opere esposte. Stava lì e basta.
A livello formale la pellicola è competente, senza particolari guizzi, ma dotata di un lessico funzionale allo scopo. La filosofia produttiva è quella di un lavoro su commissione, priva di un’impronta autoriale, eppure ci sentiamo di lodare la massima che se ne ricava: informarsi, prima di parlare. Niente affatto scontato, di questi tempi.
In conclusione, grazie all’astuzia con cui Girotto evita la retorica spicciola di certi documentari, abbiamo intrapreso un piccolo viaggio all’insegna del relativismo, dove la curiosità del protagonista funge sia da strumento d’emancipazione che da pezza giustificativa per una sostanziale carenza di creatività.
Una “filosofia”, questa, ben esplicitata dall’identificazione narcisistica di Marco in D’Annunzio, che culmina con quella che è la sua battuta più memorabile:
“Non so da dove cominciare”