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FEFF 17 – Secondo round: è una questione di qualità

di il 01/05/2015
 

Il problema
A dispetto di tecnica e budget sempre in aumento, anno dopo anno ho notato un abbassamento della qualità media della selezione e temo quindi si stia fraintendendo il significato di cinema popolare. Anche se spero siano solo coincidenze.

L’aggressività abbassa la capacita d’intendere
Nel primo round pensavo di aver commesso un errore. Confrontare cinema di grande qualità artistica (spesso erroneamente nominato col merdoso termine “d’autore”) col cinema che il Far East definisce popolare (spesso erroneamente nominato col merdoso termine “commerciale”), facendo vincere a mani basse il primo, poteva sembrare ingiusto, dopotutto sono due mondi diversi, no?
No.
Dovevo essere tanto stanco per aver lasciato che mi venisse il dubbio, lo Non Sbaglio Mai®: il nervoso per le tante pellicole fotocopia ritrite, per nulla intelligenti o interessanti presentate in concorso mi aveva fatto dimenticare per un attimo che non è certo quello il cinema popolare. Quello è solo cinema brutto.
Il mio era quindi il confronto tra un film bello e troppe pellicole ruffiane scritte e girate solo per compiacere in maniera disonesta un pubblico raggirabile.

Il presupposto
L’arte è una delle tante forze che anima le persone da dentro verso fuori. Come il sesso.
I soldi sono l‘artificio più geniale mai inventato per controllare le masse, è una forza che violenta da fuori verso dentro. Come l‘opinione degli altri o la tradizione.
Quando le forze esterne condizionano del tutto il quotidiano nasce un tumore, fisico o psicologico non cambia perchè, in entrambi i casi, la vita viene mortificata fino a diventare sopravvivenza e si danno le redini della propria gioia in concessione a tempo indeterminato a terzi, che le usano a proprio vantaggio.
Il tumore può anche essere cinematografico.

Il cambiamento
Chi si ricorda i primi Far East Film Festival riporta alla mente un evento gratuito in amicizia, dove si lasciava la maglia sulla sedia per conservare il posto vicino agli Amichetti di Cinema© ad ogni proiezione, rievoca una decina di giorni costruiti su misura e spinti da un manipolo di appassionati inferociti. Oggi siamo alla diciassettesima edizione, quindi non sono passati molti anni da quei tempi e gli agguerriti fanatici dello stupendo cinema action di Hong Kong sono ancora tutti Ii, ma qualcosa è cambiato: il cinema asiatico, dopo il duemila, in Italia, ha avuto un’impennata di popolarità. Gli oggi vetusti forum Internet (sostituiti da blog e social network) avevano iniziato a popolarsi di centinaia di appassionati e Takeshi Kitano, Wong Kar-wai, Jia Zhang-ke e (pace all’anima sua) Kim Ki-Duk da li in poi non sono più stati degli scioglilingua nerd, ma capisaldi della cinematografia mondiale ben noti a chiunque ne sappia almeno l‘abc. C‘è stato un momento nella decade scorsa in cui la settima arte era praticamente solo una questione asiatica. Ed il giro di vite sui critici con la lingua troppo impastata per apprezzare quel gusto prelibato è stato un bene per l‘umanità.

Lo scontro e l’incontro di forze, for dummies
Quando le piccole realtà veraci diventano popolari arrivano gli squali. Per questo il coraggio di ritagliarsi la propria isola felice di qualità contro le sberle del business deve essere supportato da grande fiuto.
Nel mondo del cinema la qualità ha a che vedere con l’arte, l’arte è il frutto concreto della creatività e quest’ultima è un impulso che non si può fermare o scegliere, è la valvola di sfogo di un pentolone bollente che altrimenti esploderebbe. L’arte è sempre esistita, anche prima dell’invenzione della moneta, e sempre esisterà, anche dopo la prossima invasione barbarica.
L’arte, pur non essendo generata per creare profitto, può far fare soldi e – sinteticamente – essere ricchi è bello. Ma è ovvio che data la sua natura spontanea l’arte abbia meno bisogno dei profitti di quanto i profitti non abbiano bisogno dell’arte. Per questo la deviazione commerciale è patologica: lo sfruttamento in batteria di un qualcosa che non si può controllare genera mostruosi tumori. Ovvero opere disoneste che vengono vendute all’interno di una definizione artistica e che invece nascono e muoiono col solo scopo di incassare. Opere che non meritano nessun palcoscenico al mondo.
Da qui si potrebbe pensare che Arte e Soldi siano forze opposte che si scontrano, invece sarebbe sciocco non considerare che possano tranquillamente coesistere: innumerevoli esempi sono li a dimostrarlo, ed è qui, in questo catino di produzioni sopraffine, che il Far East Film Festival dovrebbe sguazzare: cinema di alta qualità artistica capace di vendere al botteghino. Cioè essere anche popolare.

La scelta
Si è appena detto quanto l’arte ed i soldi possano essere due forze opposte così come grandissime amiche a seconda di chi delle due è la motrice e chi segue.
Il Far East Film Festival vedendo negli anni la crescente popolarità del cinema che propone ed ospitando quindi sempre più una varietà di pubblico multicolore, ad un certo punto ha dovuto scegliere se restare nell’undergroud in un sotterraneo cupo con aria viziata e competentissimi grassoni pelati dall’ascella importante o aprire al maggior numero di persone possibile con cinema variegato di ogni genere. Esponendosi così al rischio di abbassare la qualità. Ma il problema che noto dilagarsi di edizione in edizione non è lo scendere ai necessari compromessi ma il confondere il cinema popolare col cinema costruito solo per far soldi.

Il diario infrasettimanale
Nei primi giorni del FEFF la selezione di film asiatici è stata praticamente tutta su film che, di artistico, avevano poco/nulla: il distacco di qualità con quelli “d’autore” di mezzanotte è stato un pugno sullo stomaco, era impossibile non accorgersi della differenza. The Tribe, The Duke of Burgundy e Alleluia sono impressionanti, stupendi.
Possibile che in Asia nel 2014 abbiano girato solo fotocopie sbiadite, un riciclato di vecchi cliché e discreti usati garantiti? Che non ci sia stato qualcuno in grado di scrivere testi originali e colti o rischiare e provocare? La risposta è ovvia e ne è dimostrazione il grandissimo Uncle Victory di Zhang Meng, un regista che ci mancherà al FEFF nei prossimi anni ma che rivedremo conteso tra Cannes e la Mostra del cinema.
Nei due giorni infrasettimanali, comunque, da sotto la sabbia della medio borghesia cinematografica, qualcosa ha fatto timidamente capolino: la grana ruvida del dimenticabile The Continent, la serie infinita e divertentissima di eccessi nell’horror thailandese The Swimmers, il film più divertente del festival e, forse, tutta la scena mascherata sul furto di quella pesantissima statua nel taiwanese Meeting dr. Sun.
Riassumendo, un film a livello dei film della notte e tre film in cui funziona praticamente solo un dettaglio è un po’ poco per questo festival dal clima gioioso e solare. Credo insomma che i selezionatori abbiano sottovalutato l’aggiunta della parola popolare (vende molto) a cinema (forma d’arte): più che uno smagrimento del significato complessivo è piuttosto una sfida ancora più ardua.

Il senso delle cose
Il cinema popolare è fatto da film artisticamente validi che fanno soldi piacendo ai più, cioè il massimo dell’espressione cinematografica possibile. Per questo da un festival che fa di questo la sua bandiera mi aspetto una qualità ben più elevata di altri eventi (come Cannes o la Mostra di Venezia) in cui viene tenuta in considerazione la sola qualità artistica.

 

uncle

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