Dopo le botte della prima settima, al Far East Film Festival 2015, sono arrivati i botti dell’ultimo divertente week end: mai demordere quando c’è passione!
Negli ultimi due giorni di programmazione ho finalmente riconosciuto il Buon Vecchio Zio FEFF® che aspetto ogni anno con gioia: quello leggero, divertente ed intelligente. Quello che starebbe in piedi, sui miei fragili spazi mentali, anche senza la tracotante presenza della Cricchetta del cinemino©, anche senza il trancio-pizza di gomma, anche senza le carezze gentili in un lettone mai così promiscuo, anche senza le molestie pre-insalatona, anche senza le mascherine sedicenni gialle di cui m’innamoro ogni anno, anche senza il concerto, i DVD, i gadget e gli stacanovisti del frenetico bar interno. Dopotutto, mica mi aspetto il film del secolo – me lo auguro sempre e dovrebbe essere quello l’orizzonte utopico a cui l’organizzazione dovrebbe puntare – mi aspetto solo di non essere offeso da materiale televisivo, spento ed uniformato. Se il vanto “popolare” significasse solo un rigurgito di mediocrità e serie TV per vecchie vedove su grande schermo me ne starei bello felice come tutti nella merdosa città d’asfalto ad aspettare il week-end per sfogare le umiliazioni psicologiche del quotidiano anestetizzandomi nell’abbraccio indelebile a quell’universo immondo fatto di aperitivo alla moda, mito di Cortina d’inverno e Sardegna d’estate, tradimenti, musica dance e pallone. E non sarei invece sempre così agitato, in cerca, curioso, alla scoperta e terribilmente scoperto.
Quindi cosa c’è stato di così speciale nell’ultimo week-end rispetto alla settimana piatta che l’ha preceduto? Guardando il programma del venerdì verrebbe da chiedersi come si possa rimanere felici di Cazzatelle giapponesi® caotiche con una sola idea originale malamente abbozzata (The end of the world and the cat’s disappareance), o altre che rovinano il ricordo del manga dal quale son tratte (Parasyte), o di coiti interrotti come l’inizialmente onesto e poi furbetto/lacrimevole My brilliant life o, ancora, di remake copia-incolla di film già visti allo stesso festival (20 once again) o, in ultimo, di mattoni noir come Port of call? La risposta è semplice: non mi sono sentito insultato/sprecato guardandoli. Tutti avevano almeno un intento interessante, anche se non è bastato a farne dei bei film. Sintetizzando: “The best you can is good enought“.
Sabato lo stesso: pellicole che ci provano e che non prendono in giro l’intelligenza del pubblico in sala e, questa volta, il meglio che il regista poteva fare ne ha addirittura fatto bei film, mi sono piaciuti tutti: dal piacióne, paraculo e solare Where I am the king, capace d’intenerire anche cardiopatici seduti involontariamente a fianco del regista, all’azzeccato, delicato ed iperrealista Siti nel quale, tra puttane dai fianchi larghi e voglia di sopravvivere, l’Uomo Trash-Porno® che è in me non ha potuto non notare come la protagonista indossasse ciabattine infradito marca “Swallow“.
Ma, il vero purissimo distillato di Far East Film Festival arriva nella prima serata con due film che fanno finalmente tornare il Giappone ai fasti di quando qualità, arte ed efficacia popolare venivano dati per scontati: Unsung Hero e Forget me not sono, a pari merito, i vincitori morali del festival ed esemplari perfetti di cosa significhi fare cinema popolare oggi.
La grande chiusura col chiassosissimo scassone The Taking of Tiger Mountain, del divo internazionale Tsui Hark, è perfetta. Non si poteva scegliere di meglio, anche se la puzza di vecchio ha addormentato quasi tutti.
Menzione speciale per The man with three coffins che vince il premio come peggior classico restaurato della storia di questo festival: l’unico che mi abbia procurato dolore fisico sia agli occhi che alle orecchie, senza contare i crampi al cervello. L’unico film per il quale il pisolino non è stata questione di noia ma un meccanismo automatico di sopravvenienza. Altre testimonianze ricordano anche senso di nausea e mal di testa. E un via vai dalla sala al giardino per prendere un po’ d’aria. Mai più.
Ultime due parole sul vincitore che, come noto, viene deciso dai voti del pubblico: Ode to my father anche a distanza di giorni non saprei come altro ricordarlo se non come un patetico drammone storico-sociale tecnicamente ineccepibile. La cosa peggiore è che non posso nemmeno illudermi che le lacrime in sala fossero solo il solito trionfo della piaggeria (dopotutto c’è gente che alla Mostra del cinema, in anni non sospetti, ha avuto la faccia tosta di applaudire i film della Comencini…), perché è stata una proiezione senza la presenza del regista. Sapermi seduto vicino a persone capaci di emozionarsi di fronte a questo spettacolo mi fa paura. Sembrava di essere nella sala ricreativa di un ospizio durante la puntata finale di Carràmba! Che sorpresa. Anche i fazzolettini di carta inzuppati di muco erano in vistoso imbarazzo. Praticamente vince per il secondo anno consecutivo lo stesso film o, meglio, il suo fratello handicappato: chi ha visto l’avventuroso The Eternal Zero, trionfatore della scorsa edizione, sa di cosa parlo.
Il Black Dragon award è andato invece a The last reel, un Nuovo cinema paradiso cambogiano che, tra memoria, emancipazione e fronzoli naif si è arruffianato anche lo zoccolo duro della platea.
Un pubblico di Teneroni®, insomma, quello del FEFF.
Per quel che riguarda la vita da festival, al di la dei film, urge segnalare il clamoroso passo falso del gift-shop di quest’anno, che ha sostituito gli adorabili, enormi e tamarrissimi occhiali giallo-estate da tre euro degli anni scorsi con una versione triste e marrone al triplo del prezzo. Togliendo così a tutti il divertimento della tradizionale foto usa e getta da Frocetti Quattrocchi® davanti al poster della manifestazione. Una tristezza mitigata però dalla sempre adorabile Piccionaia: sogno di ogni vero intenditore che, a dispetto dello schermo minuscolo e sottotitoli confusi, si regala anno dopo anno come luogo rigenerante, romantico e pacifico. Il 1968 del teatro Nuovo Giovanni da Udine. La amo.
Al prossimo anno!