Diamo un caloroso benvenuto a Pinoyna, pecorella asiatica e le lasciamo la parola per commentare il primo film filippino in programma: Mercury is mine.
Pinoyna: Salamat po, Nerina. Cari lettori po delle pecorelle cinefile, è un onore partecipare a questo collettivo. Inizio con un breve riassunto della trama: un giovanissimo superbiondo ‘bianco’ capita in un ristorante da strada gestito da una scorbutica ma vitale signora di mezz’età. Il giovane Mercury (da cui il titolo) è spiantato, piangente e non sa dove andare. La ristoratrice lo adotta e inizia tra loro una relazione ambigua ma solare.
Jason Paul Laxamana, firma la regia e la sceneggiatura di quest’opera indipendente che, pur non essendo una pietra miliare, rivela la vitalità della nostra cinematografia. La storia è ben scritta e la regia è discreta, nel senso che non vuole esporsi per piacere a tutti i costi. Ci sono alcune ingenuità che rivelano un lavoro di editing forse non troppo accurato ma lo spaccato che offre della mentalità pinoy nei confronti del (ex?) conquistatore bianco è veritiera, anche se a voi sembrerà esagerata. Agli occhi di noi filippini (e di molti altri paesi asiatici, in verità), la pelle bianca, l’occhio azzurro, l’appartenere al ‘primo mondo’, costituiscono un plus, un modello da raggiungere. Ne sono prova gli enormi cartelloni pubblicitari di Manila che espongono solo modelle caucasiche, di ba?
Questa curiosità antropologica è il motore del film e, volendo, anche il senso del suo epilogo che mitiga questa specie di autoimposta sudditanza con la nostra scaltrezza femminile, fatta di amore per l’amore ma anche di un necessario senso pratico (in pratica, la cuoca si dispera per l’abbandono ma, previdentemente, ha fregato in anticipo il malloppo all’ingenuo biondino).
Grazie Pinoyna, sembri quasi un vero critico cinematografico.
At the Terrace, del giapponese Kenji Yamaguchi, è un’implacabile ritratto della media borghesia giapponese raccontato attraverso le conversazioni post cena di un gruppo di sette conoscenti. La commedia è caustica e ben scritta. Siamo, per capirci, dalle parti di Carnage di Polanski. Come in quest’ultimo, però, il film si cammuffa da palcoscenico e lascia che la forma teatrale prenda il sopravvento su quella cinematografica. A molti questo fatto sembra piacere. Per altri è indifferente. A me indispone. Fossi la maestra di Yamaguchi gli avrei detto: “Bello, ma sei andato fuori tema”. Vista la scelta di voler sottolineare l’origine teatrale, avrei stimato maggiormente il regista se si fosse spinto fino in fondo mettendo una camera fissa davanti al palcoscenico, come nella foto sopra.
Ma quand’è che il mondo cinematografico si accorgerà della grande saggezza cinefila ovina e inizierà a consultarci?
The City of Betrayal della giapponese Daisuke Miura ci ha indotto il sonno. Magari era pieno di sottili e acute osservazioni sui rapporti tra i sessi, la stanchezza delle relazioni e\o altre amenità ma il gregge ha ronfato sonoramente non appena si è reso conto che l’unico vero tradimento era quello nei confronti dell’intrattenimento.
Godspeed, del taiwanese Mong-Hong Chung, è un film sbagliato. Ha una bella regia, una bella fotografia, dei bravi interpreti (un convincente Michael Hui), ma si vede che la scrittura è alla disperata ricerca di uno stile originale, tra commedia, gangster movie e noir. Il risultato è analogo a quello di un uomo che mostra palesamente di essere alla ricerca di una donna: non acchiappa.
Pecorelle molto irritate e sveglie.
Non come adesso che sono già quasi tutte nel nel mondo dei sogni.