Ecco finalmente il resoconto che tutti voi, cari affezionati lettori, stavate aspettando con ardore: la criptica cronaca di un prestigioso Festival che quasi nessuno conosce e le disoneste e corrotte (per amicizia) opinioni su film che, probabilmente, non avrete mai modo di vedere.
Su cosa sia il MMFF, ossia il Metro Manila Film Festival, non starò a dilungarmi. Se vi siete persi il precedente articolo sull’argomento, vi basti sapere che è il più importante festival di cinema mainstream delle Filippine, che si svolge nella settimana tra Natale e la fine dell’anno e che rappresenta la chance più importante, per l’industria cinematografica locale, di guadagnare su quanto prodotto, spesso da piccoli imprenditori che si espongono col proprio patrimonio.
Le opere in concorso erano dieci. Il vostro affascinante critico ne ha viste ben sette, trascurando Hold Me Close e My Future You, due insopportabili, per definizione, commedie sentimentali, e l’horror Strange Frequencies: Taiwan Killer Hospital, perché proprio non digerisco il genere “found footage”.
Stilerò una classifica in ordine di gradimento inverso, così gli amanti della stroncatura potranno saziarsi senza sforzare troppo occhi e tempo.
Al settimo e ultimo posto il fantasy nostalgico (lo so, sembra un ossimoro) The Kingdom.
Vi s’immagina un presente ucronico, nel quale le Filippine non sono mai state colonizzate e dove regna un vecchio sovrano, autoritario e carismatico, sul punto di abdicare a favore di uno dei suoi eredi.
Questo era tutto quanto sapevo della trama prima di entrare in sala. Immaginavo shakespeariani intrighi di corte, odi malsani e malvagità decadenti. Invece, sin da subito, si è immersi in una corte dove regna una discreta armonia borghese: la figlia minore prediletta che sta per convolare a nozze con un principe tailandese, il figlio di mezzo, scavezzacollo, che passa il suo tempo a scommettere sui combattimenti tra “galli” (che, nell’ucronia della sceneggiatura, sono gladiatori che combattono per la propria vita), la figlia più grande, assennata e chiaro erede designato. Sembra tutto perfetto quando la nubenda viene rapita il giorno delle nozze e un intrepido, misterioso, affascinante contadino, interpretato dal bellissimo Piolo Pascual, la salva. Purtroppo non siamo nemmeno a metà e la trama inizia già a vacillare. La storia è ambientata ai giorni nostri (la reggia ha per sfondo i grattacieli di Makati e tutti guidano SUV di ultima generazione) ma, pare, non esistano i telefoni, nemmeno quelli a gettone. Per far sapere al re che la figlia è salva, l’ombroso eroe deve riportarla fisicamente a corte, causando, per il ritardo, una bella strage di innocenti ribelli e la morte del principe fratello. L’insipienza nella sceneggiatura prosegue, assurdità dopo assurdità, fino al lieto fine finale, insultando l’intelligenza del pubblico con colpi di scena telefonati e illogici spiegoni, come in un brutto sceneggiato con Manuela Arcuri e Gabriel Garko. Il film, nonostante tutto, è stato il miglior risultato al box office, dopo And the Breadwinner is…, e Michael Tuviera, anche sceneggiatore, ha vinto il premio come miglior regista. I filippini sono tonti? Ovvio che no, o, almeno, tanto quanto noi italiani. I filippini, come gli italiani, sono sostanzialmente dei nostalgici. Noi del Duce (in barba a ogni proclama antifascista della nostra Repubblica, abbiamo eletto, a furore dei pochi non disgustati dalla politica, il peggior leader di sempre, liberticida in Patria, atlantista e sionista in politica estera), loro del dittatore cleptocrate Ferdinand Marcos (e infatti ne hanno eletto il figlio, a stragrande maggioranza, anche se incompetente e col carisma di un vigile urbano), che sullo schermo è chiaramente riconoscibile nel personaggio del Re, interpretato dall’amatissimo e venerato attore brillante Vic Sotto. Le Filippine descritte in The Kingdom hanno gli stessi problemi di quelle reali: povertà diffusa, contese territoriali e gruppi di ribelli rivoluzionari, ma l’immaginaria tradizione degli avi, preservata dalla famiglia Reale, garantisce al popolo una forte identità nazionale. Vista la deriva delle nuove generazioni filippine verso un’assimilazione completa con la cultura (?) americana, forse, ancor più che per un passato comunque pieno di ombre, è questa la chiave del successo del film: la nostalgia per qualcosa che non è mai esistito, che è poi il segreto del cinema in generale, secondo Bernardo Bertolucci.
Mentre The Kingdom è, a mio parere, un lavoro sbagliato e irrecuperabile, i prossimi tre della mia inesorabile classifica presentano dei difetti abbastanza precisi che ne affossano le potenzialità e che si sarebbero potuti evitare. Ecco, quindi, la terzina delle occasioni sprecate.
Al sesto posto: Uninvited di Dan Villegas, un discreto revenge movie, dove si racconta di una madre che, sconvolta dallo stupro e omicidio della figlia perpetrato da un potente boss della mala, decide di vendicarsi giustiziando tutti gli attori coinvolti nel crimine. L’azione si svolge quasi interamente durante la festa di compleanno del psicopatico villain (un ottimo Aga Muhlach, inspiegabilmente non premiato). Regia, scenografia e fotografia sono di qualità, anche se ci sono alcune stupidaggini nei dialoghi, specie nella scena finale in cui la madre e lo stupratore si scontrano, ma il vero problema del film è la protagonista: la veterana diva Vilma Santos. La dolcissima attrice ha settant’anni ed è bassina e minuta; vederla affrontare con un coltello da cucina e stendere un bruto grande e grosso come un armadio è ridicolo. La sua preparazione alla vendetta si limita a imparare a usare la pistola che, comunque, alla festa non può portare. Con che speranze poteva pensare di avere successo? Il ruolo sarebbe dovuto andare alla sempre perfetta Mylene Dizon, (che interpreta, invece, la moglie del boss) atletica e di vent’anni più giovane, magari con qualche sequenza preliminare dove la vedevamo imparare il krav maga. Con lei protagonista Uninvited sarebbe stato un buon prodotto, degno di essere distribuito in tutto il mondo. Con la pur volenterosa Vilma Santos, il risultato somiglia all’ultima puntata della saga de Il giustiziere della notte, dove un giustamente rigido settantenne Charles Bronson, con capello e baffo canuti, più che terrorizzare i cattivi fa tenerezza.
Al quinto posto: Isang Imala (Un miracolo) di Pepe Diokno, riduzione cinematografica del musical Himala: Isang Musikal (Miracolo: un Musical), a sua volta adattamento del film Himala del 1982, con l’intensa Nora Aunor, per la regia di Ishmael Bernal, una delle pietre miliari della cinematografia filippina di tutti i tempi che consiglio vivamente di recuperare.
In un villaggio imprecisato della campagna filippina, durante un’eclisse, una giovane donna pretende di aver avuto una visione mistica e inizia a guarire i malati. La fama si sparge, attirando gente e denaro nel piccolo villaggio, fino a un tragico epilogo che dissolverà le pretese della guaritrice e le illusioni di ricchezza dei compaesani.
Ci sono due modi per portare una pièce teatrale o un musical al cinema: sceneggiarli come un film, liberi dai canoni aristotelici di unità, tempo e azione, tipici del teatro, o riprendere lo spettacolo in scena limitandosi ad enfatizzare, attraverso le inquadrature e il montaggio, i momenti o i dettagli salienti. Pepe Diokno prova una terza via, allestendo un piccolo set cinematografico, visibilmente fasullo, allargandone confini e prospettiva con l’uso del CGI. Il risultato, purtroppo, è un ibrido abbastanza irritante che rende ridicolo l’assembramento degli attori in pochi metri quadri quando sembra ci sia, invece, spazio a volontà e, nello stesso tempo, venendo meno l’accordo tra spettatore e finzione scenica, rende assurdi alcuni momenti della trama, come ad esempio la scena di stupro a due passi dalle popolate catapecchie. Peccato davvero perché la storia continua ad essere potente anche in versione musicale e gli interpreti sono straordinari, sia come cantanti, sia come attori, con l’eccellenza di Kakki Teodoro che ha giustamente vinto il premio come migliore attrice non protagonista.
Il quarto posto l’ho assegnato And the breadwinner is… una commedia drammatica diretta da Jun Robles Lana. Il film vede come protagonista una delle star più famose delle Filippine: Vice Ganda. Attore comico, cantante, presentatore televisivo, è stato per lungo tempo il protagonista di commedie simili ai nostri cinepanettoni ma dalla comicità meno becera anche se, comunque, un po’ grossolana. I filippini lo amano senza riserve. In questo lavoro, per la prima volta, esce dai panni dei suoi abituali e macchiettistici personaggi, per interpretare il ruolo Bambi, un lavoratore gay emigrato a Taiwan che, perso il lavoro, decide di tornare a casa. Qui scopre che sua la famiglia, mantenuta a prezzo di grandi sacrifici per anni, ha scialacquato in imprese fallimentari il denaro inviatole per l’acquisto della nuova casa. A causa di un equivoco è ritenuto morto e, quando scopre che la sua assicurazione sulla vita potrebbe risolvere ogni problema economico famigliare, decide di non rivelare la verità. L’incidente causa il ritorno della sorella maggiore Baby, interpretata dall’irresistibile Eugene Domingo, fuggita in Italia dopo la morte del padre per non doversi accollare il ruolo di “breadwinner”, ossia di chi deve prendersi in carico la responsabilità di mantenere la famiglia. Dopo spassosi battibecchi, equivoci e travestimenti, il film converge verso un finale patetico e strappalacrime, costruito su misura per dare modo a Vice Ganda di dimostrare le sue capacità di attore drammatico.
- Essendo un grande ammiratore di Jun Robles Lana, ricordo che, al termine della proiezione, mi ero chiesto cos’è che non aveva funzionato. Pure riconoscendo la sua mano nelle scelte registiche, nella fotografia e nell’allestire i siparietti comici, la scrittura non mi aveva convinto. Il monologo finale, in cui Bambi esprime tutta la sua frustrazione, amarezza, rabbia e delusione nei confronti dei suoi famigliari, era stato eccessivamente lungo, sbagliato. L’attore, nonostante tutto, se l’era cavata ma un senso di posticcio aveva ammorbato quella che sarebbe potuta essere, con qualche taglio, davvero una sequenza memorabile. In seguito sono venuto a sapere che, a differenza degli altri suoi lavori, storia e sceneggiatura erano state affidate a Daisy G. Cayanan e Jumbo A. Albano e che il regista si era limitato a limarla e ad aggiungere il personaggio Baby.
Ecco l’occasione sprecata. Lo sforzo di disegnare un personaggio complesso e patetico per marcare una nuova fase nella carriera cinematografica dell’attore protagonista, era andato a discapito della parte più leggera del racconto, trascurandola, quando invece, con una migliore cura ed inventiva, avrebbe potuto arricchire di colore il contrasto con quella drammatica. Un po’ più di spessore nei dialoghi della resa dei conti finale, inoltre, sarebbe stato capace di commuovere anche anime nere come la mia che mal sopportano il far piangere il pubblico con l’abusato trucco di mettere uno che lacrima sullo schermo.
Come sopra ricordato, il film, nonostante i suoi difetti, è stato ed è ancora il numero uno al Box Office nelle Filippine, a riscatto dello scarso risultato commerciale di Becky and Badette dello scorso anno, opera nettamente superiore e tra le migliori dello stesso regista.