Forte dello scarso appeal dei film mattutini, della finestra per assistere a quello di Miike Takashi e di una certa addiction ovina da serial, Housina convince le sorelline a seguirla nella maratona di The Knick, feuilleton in costume di Steven Soderbergh, prodotto dalla HBO.
La serie ha per protagonista un geniale chirurgo, interpretato da Clive Owen con un po’ troppo nero nei capelli, che esercita all’inizio del secolo scorso al Knickerbocker Hospital di New York. Tra cocaina, scoperte chirurgiche (nell’ordine: il cesareo, la sutura dell’ernia inguinale, l’aspiratore elettrico e, mancata per un soffio, la struttura dei gruppi sanguigni), problemi razziali e sentimentali, coratelle e frattaglie operatorie esibite ostentatamente, le quasi nove ore scorrono con una certa spigliatezza, pur senza momenti particolarmente memorabili. Come tutta la produzione di Soderbergh. “Qualcuno può citare, di questo regista, qualcosa che gli sia rimasto impresso nella memoria?”, chiede Nerina all’uscita della prima tranche di quattro episodi. Le pecorelle si guardano l’un l’altra interrogative. In effetti, a parte l’evidente sforzo defecatorio estetico, i film del regista americano sono spesso scatole il cui valore si esaurisce nella confezione. The Knick non fa eccezione, anzi. Le impertinenti musiche elettroniche di Cliff Martinez, volutamente a contrasto con il periodo storico illustrato, irritano, piuttosto che intrigare. L’uso a casaccio della steadycam, di cui si nutre largamente la poetica immanentista del nostro, spesso confonde lo spettatore e incasina la narrazione. Il gregge subisce il fascino dell’impresa epica e resiste fino alla fine. Qualcuna si addormenta, Dispettina rilascia qualche maleodorante pallina ma al termine dell’ultima puntata, davanti a una bella pizza, anche Nerina si lascia andare, conferendo una benevola sufficienza al progetto. Io ho il sospetto che sia ancora in stato estatico per il selfie strappato a uno dei suoi idoli assoluti: Miike Takashi.
Il suo As The Gods Will, in anteprima mondiale, ricorda finalmente alla maggioranza dei film in circolazione insipidi, scontati, presuntuosi e codardi, cosa si può fare con pochi spicci, poca cerebralità e pochi limiti. La storia, tratta da un manga, parla di una feroce selezione che un’entità misteriosa opera su tutti gli adolescenti della Terra. I ragazzi sono sottoposti a delle prove che hanno per protagonisti e boia dei pupazzi tradizionali, come una bambola Daruma o un Maneki Neko. Chi non le supera è eliminato in modo cruento. Perché? Per fare cinema e divertire. Poco importa che due terzi della lavorazione siano stati fatti in post produzione. Il piglio sicuro del regista si sente, così come la sua follia immaginativa. Le pecorelle hanno belato e riso gioiose, come il resto del pubblico, del resto.
L’indomani, pur nella mesta consapevolezza di dovere rientrare in serata all’ovile, ci siamo alzati molto presto, in tempo per vedere il film cinese delle nove: 12 Citizens di Xu Ang, ennesimo remake de ‘La parola ai giurati’ che fece vincere l’Orso d’Oro a Sidney Lumet nel 1957. La storia, per chi non la conoscesse, si concentra tutta in una stanza dove i giurati devono decidere della colpevolezza di un omicida e della sua eventuale condanna a morte. Un solo giurato, che si oppone all’immediata dichiarazione di condanna, farà cambiare idea a tutta la giuria. Il regista proviene dal mondo del teatro e, con una pièce del genere, si trova indubbiamente a proprio agio. Forse un po’ troppo, dimenticando che l’enfatizzazione recitativa, normale sul palcoscenico, nuoce allo schermo. A parte questo, l’adattamento, pur restando fedele allo spirito dell’originale, riesce ad avere una sua originalità, innescando felicemente la riflessione sui pregiudizi del testo, nel substrato socio-culturale di un popolo fortemente connotato da differenze territoriali, economiche e generazionali. Pecorelle interessate anche se non particolarmente entusiaste.
Migriamo nella sala accanto, verso I Milionari di Alessandro Piva, per il quale si parla di ritorno del cinema italiano al film di genere. Quante volte lo abbiamo sentito, in questi anni? Per un’oretta seguiamo l’ascesa della solita gang camorrista ai vertici della criminalità partenopea alla fine degli anni ’70. Quando ci rendiamo conto che la seconda parte sarà inevitabilmente la carta carbone in discesa della prima, ossia il dejà vu più spinto, Manghina, ben assecondata da Dispettina, fa uscire rumorosamente tutte le sorelline dalla sala per andare all’anteprima di Doraemon 3D, di Takashi Yamazachi e Ryûichi Yagi. Chi non conosce il personaggio creato dal team Fujiko Fujio continui così e viva benissimo nell’ignoranza. Gli altri sappiano che questo ennesimo lungometraggio del gattone cosmico col marsupio è di una noiosità talmente radicale da essere quasi psichedelica. Impossibile interessarsi ai piagnistei sentimentali del Nobita contemporaneo. Freakkettina, sia benedetta, fa girare tra il gregge una tavoletta di Bhang Chocolate californiana.
Dopo un quarto d’ora le onde cerebrali ovine sono in sintonia con quelle dei bimbi in età prescolare, i soli a non sbadigliare o dormire. Ora i colori pastello e l’animazione digitale sembrano sublimi. Usciti dal Parco della Musica, spendo un patrimonio per colmare l’immensa fame delle lanose cinefile e le stipo tutte nelle nostre due originali seicento famigliari, classe 1966, comprate all’asta di beneficenza delle Suore Carmelitane.
Addio Roma, si torna a casa.