Con l’animo impostato in modalità ultraleggera/”take it easy” per il film festival della cittadina più gaia d’Europa, la nuvoletta rosa glitterata che mi orbita sopra la testa comincia a virare verso il grigio quando ogni passo di questa nuova missione da inviata della Cricchetta sembra costarmi una fatica inaspettata. Sudo per trovare un mezzo per raggiungere alloggio in piena notte, sudo per trovare la sala stampa, ed il mio Fitbit da radical chic segna ben oltre gli 8000 passi quando le adorabili sitgesine tatuate riescono a consegnarmi il tanto agognato pass Zombie, finito in chissà quale cassetto tra massaggiatori vibranti e pendagli a forma di fegato (visti).
Pass che comunque non riesco ad usare il primo giorno, mi spiegano, perché anche gli accreditati stampa devono prenotare i film entro le ore 20 del giorno precedente. A questo punto la mia nuvoletta dell’umore smette del tutto di cospargere pailletes sul sentiero e comincia a farmi piovere addosso qualcosa di simile a quello che secerne la milza e che i poeti chiamano spleen. Per fortuna entra in campo la peggior nemica della burocrazia, ossia quella strana energia chiamata empatia, che si incarna nella tipa dietro al bancone accrediti e mi porge ammiccante dei biglietti omaggio per i film del giorno. Riecco le sfumature fucsia.
The man who killed Hitler and the Bigfoot di Robert D. Krzykowski è l’esordio di un giovane ancora senza reddito di cittadinanza ma con tante idee.
Fa ridere di una comicità volontaria e intelligente, forse accentuata dalla calda accoglienza di un pubblico principalmente spagnolo che ci tiene a segnalare la sua presenza, un po’ come gli italiani che applaudono ad ogni atterraggio che potranno raccontare. Nella pelicula gioventù e vecchiaia del nostro integerrimo eroe americano si guardano allo specchio: stessa barba curata e stesso atteggiamento nei confronti delle cose che si devono fare (e cioè che si fanno e basta). L’unica evidente differenza pare risiedere nelle aspettative, ruggenti motori della giovinezza che sfumano in tiepidi ricordi man mano che ci si avvicina all’età in cui ci si può legittimamente aspettare solo che arrivi la morte.
Le spassose scene d’azione che spaziano dallo scontro Sandokan/tigre ad un più pulito affare alla 007 stuzzicano più dello sfondo intimista, parola che so che va usata in questi casi, ma per me irreparabilmente inquinata dalle pubblicità sui detergenti a pH neutro. Insomma, film piacevole ma conto sulle potenzialità del buon Robert che con qualche altra mancia della vecchia zia potrà alzare il budget di produzione per farci godere di più.
ANGEL di Luis Ortega è un film che non avrei esitato a definire favoloso, se solo non fosse macchiato da quel dilagante accanimento terapeutico consistente nel tenere in vita i film ben oltre la loro morte naturale. A parte questo piccolo neo, comune vezzo dei belli, è davvero difficile resistere al magnetismo di due giovani labbra carnose, incorniciate da boccoli dorati incaricati di proteggere una mente criminale ossessionata dalla libertà. “Il mondo appartiene ai fuorilegge e agli artisti“, ed il nostro angelo Carlito sintetizza le due categorie. Furti, rapine, omicidi non sono altri che l’espressione di un talento naturale, di una vocazione artistica che richiede partecipazione. Anche mentre si saccheggia una gioielleria, quello che conta è farlo lentamente, con coscienza, per assaporare il gusto di essere vivi.
Molte le scene memorabili, consigliato.