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#Venezia73 – il Diario Scatologico: parte 2

di il 03/09/2016
 

Nel mio atipico tran-tran annuale, il bus è escluso. Almeno fintanto che chi offre il servizio la smetterà d’intenderlo come un carro bestiame d’epoca nazista. Lo prendo solo nei primi giorni di settembre, causa forza maggiore di una terraferma collegata al Lido di Venezia unicamente dai mezzi pubblici. In verità i ricchi veri possono prendere anche il taxi nautico o l’elicottero ma è quel tipo di persona che per noia compra brasiliani di otto anni per usarli come bersagli nel safari: non me lo posso ancora permettere. Dentro il bus sono tutti più brutti, anche i belli hanno quello sguardo alienato che fa a botte con l’entusiasmo festivaliero. Così provo a distrarmi, guardo fuori dal finestrino ma nello sfondo vedo solo fabbriche. Il polo industriale avrà anche avuto vita breve ma prima di morie ha fatto in tempo a distruggere il paesaggio ed inquinare indelebilmente la laguna. I veneziani dovevano urlarlo ai dirigenti dell’epoca: se pensate che Marghera sia una nazione siete messi proprio male.

Il primo giorno alla Mostra è stato deprimente, volevo farmi male continuando a seguire la tragica deriva di uno dei mie registi preferiti: Kim Ki Duk, ma all’arrivo scorgo una folla oceanica pressarsi alle porte della rossissima Sala Giardino. Mi accodo sotto la candela delle 14 rischiando l’ipovolemia e, solo una ventina di minuti DOPO l’orario d’inizio della proiezione, un guardia sala si degna di avvertire noi plebaglia che i posti erani già esauriti. Grazie della solerzia amico. La cosa da sottolineare è che la sala ospita più di 400 persone e quelle in coda lasciate a bocca asciutta erano almeno altrettante: per un muso giallo in declino la cosa è sorprendente e forse sconcertante. È un regista che in Italia ha ancora un seguito pazzesco.
Non domo, provo a riciclare il tempo perso con l’ultimo vergognoso Muccino. Sperando almeno di farmi due risate sfottò per tirarmi su dalla delusione. Invece vengo messo in coda e rimbalzato nuovamente assieme ai miserabili accrediti verdi, quelli dei pensionati, dei cineforum del patronato, delle bocciofile e dei circoli ricreativi degli scacchi.
Questa mia eterna transumanza sembra non dover avere fine. Così mi trascino esausto in un film islandese (Heartstone, già fortunatamente iniziato da mezz’ora) con un piccolo protagonista che si chiama Thor, praticamente è come se in un film napoletano il protagonista si chiamasse Salvatore: il folclore del dopoguerra è morto da decadi, bello mio.
La pellicola è una lunga sequenza di kiss kiss, amorini infantili e quella sottile aurea di omosessualità che fa tanto “festival”. Il belloccio che sfida l’Islanda a petto nudo preferisce baciare i maschietti per gioco ma alla fine s’innamora veramente trasformando il tutto in un piccolo dramma familiare che prende vita sulle braci di uno sfondo rarefatto e purissimo. Robetta superficiale che passa e se ne va. Ne ho approfittato per dormire un po’, ma quando il dodicenne tromba la ragazzina e si stende soddisfatto sull’erba alta guardando il cielo con “occhi diversi”, mi è stato impossibile rimanere in sala.

Esco anzitempo di sala anche nel successivo 76 Minutes and 15 seconds with Kiarostami, montato in fretta e furia (ci tengono a specificarlo nella presentazione) per via dell’improvvisa scomparsa del regista protagonista del documentario. Dopo una ventina di minuti di silenzi in cui viene ripreso mentre lavora, borbotta e fa foto, l’unico desiderio è affrettarmi al bar più vicino.
Il cortometraggio che anticipa il film regala una sequenza di immagini statiche che rievocano incubi di infanzia: le diapositive delle vacanze coi parenti. Scorci immobili di un borghetto caldo e isolato in cui un pallone realizzato in pessima computer grafica scende da varie scale onnipresenti. Rotola e saltella all’infinito e non va da nessuna parte. Neanche male come metafora.

Chiudo la giornata con un film in concorso: The light between oceans (La luce sugli oceani). Un inizio evocativo e misterioso sembrava portare la trama verso l’intrigante desiderio di solitudine estrema di un uomo che ha visto troppa morte. Invece, dopo una manciata di minuti, il film si trasforma in un drammone genitoriale strappalacrime. Una di quelle love story imbarazzanti e forzate che fanno commuovere le signore di una certa età e/o le ragazzine sovrappeso con gli occhiali spessi.

Partecipare come inviato stampa alla Mostra significa arrotolarsi le maniche per scavare tra la moltitudine di film e trovare la pepita sperata. Oggi è andata male ma la miniera è solo all’inizio

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