Se c’è un trend che la Biennale di quest’anno ha mostrato è che l’odio dei registi verso il pubblico sta crescendo a dismisura. Non c’è altra spiegazione al supplizio a cui gli spettatori in sala son costretti dalla maggior parte dei film. E se te lo stai chiedendo, se ti senti preso in causa, si, sto parlando di te. Lo so che speravi che tutti abboccassero alla tua mascherata, avresti tanto voluto che nessuno si accorgesse di quella che hai provato a spacciare come una scelta rigorosa profondamente voluta per dare una sfumatura di ermetismo al tuo film. Ma ti è andata male. Ad esempio, la smettiamo con questo pressapochismo nella sezione sonora? Ok la produzione indipendente che mira ad un’utopia artistica e vuole contrapporsi a muso duro allo schiacciasassi dei popcorn, ma un’accozzaglia abbozzata di suoni ignoranti, striduli o ripetitivi (quando va bene) non è una colonna sonora. La pianola Bontempi non può essere la base fondamentale con cui solleticare i timpani in sala: il suono è qualcosa che può dare immenso piacere (ad esempio la musica) ma anche disturbare e far incazzare di brutto (le sirene e gli allarmi). L’umore di un’intera giornata può cambiare in funzione di un suono. Eliminare questa gigantesca fetta di responsabilità da un film è comodo, certo, ti toglie un po’ di grattacapi, ma significa anche collocarsi volontariamente a livelli che non potranno mai raggiungere l’eccellenza. Usare suoni monotoni, in tono minore durate la tragedia e in maggiore durante la commedia, significa riconoscere apertamente la propria incapacità, il proprio limite di competenza, di talento e cultura. Urlare questa lacuna a tutto il pubblico con quei miseri silenzi non ti fa fare certo bella figura.
Questi registi a metà sono spudorati quasi quanto le sedicenni morigerate in spiaggia che indossano il pantaloncino: belle mie, sarete anche mestruate, ma la cosa non interessa al mondo intero, tenetevelo per voi e fate a meno di sbandierarlo in giro cazzo. Mettete l’assorbente interno e il costume diosanto.
Cari registi che pensate basti impugnare la videocamera per fare un film, se provaste ad incidere su CD tutti quei vostri suoni “evocativi” di Oboe, vedreste come ve li spaccherebbero in testa. L’opera cinematografica si valuta in tutte le sue componenti e la carenza nella sezione audio, aggravata dal far credere disonestamente che sia un qualcosa “da festival”, è di gran lunga quella più deprimente.
Questo discorso non vale per Boys in the Trees di Nicholas Verso: una storia di dolore e bullismo raccontata con la forma estetica dell’horror adolescenziale. Con tanto di rampe da skate e festa di Halloween. Vince il mio personale premio come miglior colonna sonora di Venezia 73: Marilyn Manson, Nirvana, Garbage, Dinosaur Jr e Yoko Ono, solo per citarne alcuni. L’immagine segue il ritmo sincopato e folle della musica nei momenti più riusciti e onirici. Ci sono perle di una bellezza che non si può che accogliere. Ne resti come esempio massimo il pezzo folcloristico messicano con la morte (un negro in completo elegante bianco) che canta accompagnando le note con una dolcezza squisita.
Una marea di anziani è evacuata (mai termine potrebbe essere più evocativo) fuori dalla sala in pochi minuti: il loro metabolismo si adatta meglio ai film lenti, come a volersi masochisticamente ricordare quanto tutto nella loro vita si stia preparando per rendere normale il fermarsi del tutto per poi morire:
Veloce => lento => fermo (morte)
L’invecchiamento è tutto qui, non è questione d’età, sei vecchio quando scegli spontaneamente tutto ciò che rallenta. Come ad esempio tenere banco a cena parlando di malattie.
Il regista purtroppo è scisso, vien addirittura da pensare che sia stato girato da due persone distinte che si odiano a vicenda: una testa pensante che lavora per sorprendere e far felice lo spettatore con immagini ricercatissime e sofisticate da un lato ed un ottuso bacchettone della CEI (che probabilmente ci ha messo pure i soldi della produzione) dall’altro. Così il film ogni cinque minuti cambia di spessore, e da lama tagliente che colpisce a fondo, diventa un carciofo marcio premuto sulla spalla, e poi di nuovo da capo e così fino alla fine. Mi ha stremato, ma non son riuscito ad odiarlo completamente.
Mi lamento quando soffro, certo, ma l’idea di trovare il Sacro Graal della settima arte, nei posti in cui so di poterlo trovare, è cosi allettante da far superare ogni pena. Erano passati 5 giorni dall’inizio di #Venezia73 e stavo quasi per perdere le speranze quando all’improvviso ecco proiettato il mio Leone D’Oro: il divertentissimo El Ciudadano Ilustre. E’ una commedia umana arguta e tagliente. Sa far ridere, azzecca qualche massima memorabile e, in fondo, fa anche paura.
L’attore principale è di una naturalezza sorprendente.
Non so se sia la Mostra a voler spingere il cinema sudamericano dopo la vittoria di Desde Allà lo scorso anno o semplicemente in questo squarcio di storia quel sud del mondo abbia la corrente artistica più fertile ma non c’è dubbio sul fatto che per dare 5 stelle a questo devo abbassare di un voto tutta la mediocrità vista fin’ora.
Il mio film preferito tra quelli presentati in concorso, salutato con entusiasmo (eccessivo) in sala grande
La gioia ora è alta ma trova il suo picco nella visione del remaster HD di Manhattan di Woody Allen. Ma che razza di capolavoro totale è? Non dico che sia il miglior film visto a Venezia, dico che è il miglior film che abbia mai visto in tutta la vita. Saranno magari la stanchezza e le ore di sonno perse a farmi parlare ma mi sembra l’opera più arguta e geniale mai apprezzata. Meglio anche della bibliografia di Oscar Wilde.
Alla fine mi sono anche commosso, incredulo davanti tanta magnificenza.
Ora ogni altro film che seguirà non potrà mai reggere il confronto.
La Mostra per me è finita.
Infatti il pur bello Paradise di Andrei Konchalovsky è l’ennesimo film sugli ebrei nella seconda guerra mondiale che sembra fatto apposta per vincere l’Oscar, destino pre-ordinato per il quale son passati – tra i tanti – anche Spielberg e Benigni. Tra la moltitudine immensa di questa categoria fraudolenta il film spicca per i 4:3 e le grandi intuizioni visive, come le interviste riprese direttamente dal giorno del giudizio e lo spostare l’occhio della storia dalla parte delle SS.
Fa molto meglio The Journey di Nick Hamm, un film che nella trama sembrava voler essere politico ed invece è una commedia brillante piena di ritmo, divertente e mai noiosa. Visto alle 22 non ho mai chiuso occhio (praticamente un miracolo) e finalmente quella che inizia come “una storia vera” è invece realizzata con tutta la fantasia e la gioia che chi fa cinema deve sposare. Non solo è consigliato ma lo vedo già sbancare ai botteghini questo inverno. In qualche modo mi ha ricordato il bellissimo Locke di Steven Knight.
Pretty Poison (Dolce veleno) di Noel Black, è un classico degli anni sessanta. Il cinema di quando il cinema era scritto bene, di quando al primo posto c’era fare le cose con amore. Feel and look che mette una tenerezza infinita e regala felicità. Amore e follia.
Un bel piromane appena uscito dal riformatorio vive schiavo della sua fantasia senza freno: è un vulcano di idee, ha una mente esplosiva. Si trasferisce in una cittadina di provincia e fa credere alla strafiga bionda di essere un agente della CIA in missione. La ragazza, eccitatissima, prende la cosa un po’ troppo seriamente commettendo una sequenza di crimini sempre più gravi e, col passare del tempo, il film si trasforma da commedia a thriller allucinato. Altro che storiella d’amore.
Consigliato
Bellissima la tecnica di corsa del protagonista, è una dote naturale che ho sempre invidiato
Planetarium di Rebecca Zlotowski
Natalie Portman (l’unica vera diva che ha passeggiato sul tappeto rosso quest’anno, altro che quelle strappone bifolche senza mutande), presente in sala, e la figlia che Johnny Depp ha avuto con la divina Vanessa Paradis interpretano due sorelle che vivacchiano facendo pagare ai clienti il loro “dono“, che per una volta non è la vagina, ma la capacità di parlare coi morti.
Ambientato ai tempi della seconda guerra mondale ha stordito il pubblico con la sua lentezza, la sua capacità di annoiare a morte e la totale assenza di contenuti interessanti. Questo non ha fermato ovviamente l’ovvio applauso finale di pura piaggeria. E’ un film composto, seduto, che non si alza mai. E’ un’opera superflua, se non per quell’unico momento di grande carica emotiva, quello in cui in tribunale il regista chiede di non filmare, mi ha scosso per qualche secondo.
Il film finisce poi umiliandosi a più non posso quando rinnega tutto quello in cui ha creduto fino a quel momento. Vergogna: che almeno il cinema faccia sognare. Ma da una regista donna cosa si può pretendere?
Come dice il mio amico, me lo aspettavo brutto ma non cosi brutto
Di The Woman Who Left di Lav Diaz, il vincitore di quest’anno, parlo esaurientemente qui e dell’inatteso ritorno al mondo dei vivi di Kim Ki Duk col suo Geumul (The net) qui.
Sul filmone di chiusura,i puro intrattenimento americaneggiante, The Magnificent Seven di Antoine Fuqua parlo qui. Sono tutte recensioni bellissime trasgressivissime e mai banali che vanno assolutissimamente lette! Le hanno a dir poco sbranate con gli occhi i ragazzi dello Snuff Anal Fist Fucking Club di Bari. Per dire.
Are We Not Cats di Xander Robin
Incontri una ragazza ad un rave, ti fai in quattro per trovarla, cambi lavoro, cambi vita per lei. Finalmente la consoci e ti invita a casa sua. Sei un cavaliere, il principe da sogno che tutti desiderano, ma commetti due imperdonabili errori:
- non ti accorgi che porta una parrucca
- ti addormenti da lei
Così alla mattina ti svegli praticamente pelato, orribilmente spelacchiato, con quel look da chemioterapico che, diciamolo, non ti dona.
La ragazza ha il vizio di mangiare i capelli, e le è impossibile resistere, anche a costo della vita. C’è un mostro in questo folle film, un feticcio portato anche sul palco dal regista: il bolo di peli e capelli che le blocca lo stomaco portandola in fin di vita. Senza il principe a risolvere tutto con un coltellino svizzero se la sarebbe vista brutta ed invece vivranno per sempre felici e contenti.
Durante l’intervista a fine proiezione, il regista ha dichiarato che lui stesso per anni ha sofferto, se così si può dire, di questo disturbo, lui preferiva mangiare le radici morbide semitrasparenti dei peli del corpo, ma siamo sullo stesso campo da gioco.
La grandissima selezione dei brani, dal funk al soul, completa quello che resterà nei miei ricordi come il capolavoro cult del 2016.
Ku Qian (Bitter Money), di Wang Bing
Il miglior documentarista al mondo è una tappa fissa ogni anno alla Mostra. Non so se ci sia stato uno scambio di buste durante la cerimonia, ma vederlo premiare per la “migliore sceneggiatura” quando non ne ha una è stato esilarante. Ero in sala stampa, e solo per quello non ho potuto sfoderare il mio tormentone dell’estate: drogatevi di meno! Merita una recensione approfondita che pubblicherò di qui a breve.
Pamilya ordinaryo di Eduardo Roy Jr
Qualcuno ha visto in giro un trans con un bambino in braccio?
Uno dei migliori film presentati al Lido, racconta la vita di strada di una giovane coppia senza fissa dimora che, come da copione eterno, ha un figlio a 14 anni. Lui si destreggia tra piccoli furti e il prostituirsi e lei, principessa miseria nervosetta, è praticamente una vagina ambulante senza cervello.
Azzeccatissimo il personaggio della trans, mi ha inquietato, e molto saggio quello della madre della ragazza. Grande finezza le saltuarie sequenze silenziose riprese dalle videocamere di sorveglianza sparse per la città. Lo stile e la tematica ricordano la pesantezza drammatica dei film degli spocchiosi fratelli Dardenne.
Questo film ci insegna che anche se sei gay non significa che sei una brava persona.
Cari miei registi crudeli pervertiti di quel silenzio che quasi mai regala gioia, cari miei registi a metà, vi dedico Kuesta®:
Fatevi una cultura musicale per l’amor di dio!