Ricordo un vecchio detto che dice che le piccole cose crescono: non credo valga lo stesso per la settima arte. Certo, a fine proiezione, infilando morbosamente la mano nel pacchetto di Haribo, il giudizio di prima istanza potrà essere positivo o negativo, ci si troverà eccitati o depressi ma, a distanza di giorni, cosa rimane? La risposta è semplice: i grandi film, quelli capaci di modificare permanentemente il cervello con una sinapsi nuova tra le mille che muoiono quotidianamente nel tran tran della vita di tutti i giorni. E’ cosi che Doubles vies – nonostante mi avesse lasciato freddo – ora dopo ora, inaspettatamente, si è fatto spazio, mi è cresciuto dentro sgomitando fuori dalla testa tutto il resto. Parlarne significa entrare nel discorso del regista, confrontarsi e immergersi nel dibattito sull’arte che inizia. Scrivere della recitazione, del ritmo, della fotografia, del montaggio o del minutaggio significherebbe dimostrare un’ottusità critica che il film non si merita.
C’è un’inquietudine che brucia silenziosa nell’animo del creativo, è una ferita infetta che si fatica a nascondere ma di cui si parla poco. É li, ma si preferisce voltare le spalle. Eppure è una domanda fondamentale, sulla quale si sbatte per forza dopo la fine dell’inevitabile entusiasmo iniziale, dopo tanti anni in cui si sono partoriti contenuti originali.
Si fanno sempre più film, si scrivono sempre più libri, si compone sempre più musica si fanno sempre più foto, recensioni, articoli. Si consuma velocemente e non ci si vuole fermare, tutto per avere più tempo per poter bruciare velocemente altro materiale usa e getta. Un tempo, per condizionare l’opinione pubblica, bastavano i giornali ma oggi la carta stampata è in svendita e serve ormai a impoverire i cervelli dei pensionati seduti davanti ai bar dei cinesi o a pulire la pipì di una gatta troppo vecchia per centrare la sabbietta. Il quarto potere, tanto caro ad Orson Welles, è bello che sepolto. La TV invece è ancora forte ma ha finalmente un rivale: i Social on-line sono diventati il sesto potere, quello più promettente, quello su cui scommettere la liquidazione, quello con un’energia potenziale (ancora fortunatamente non del tutto espressa) in grado di dominare a modi valanga su tutti gli altri: la condivisione totale è un punto fermo nella storia dell’umanità, un giro di boa dal quale non si torna indietro. Erano più di settant’anni che il mondo aspettava la nuova era. Nel bene e nel male questa generazione verrà studiata per tutto il secolo.
Arrivo al punto, in una cosa di certo si converrà: dire che oggi tutti si sentono in diritto/dovere di fare, dire o commentare qualsiasi cosa tramite i nuovi mezzi di comunicazione è una banalità, infatti la Domanda Madre di questo annacquatissimo preambolo è:
tutte queste stronzate creative, anche le più belle, anche i capolavori, a chi verranno raccontate? (Cit.)
Non lo so, forse tutti si credono determinanti, così, a caso, solo per il fatto di esistere: non importa se non hanno mai coltivato una passione, di sicuro tutti si sentono di diffondere la loro genialità al pianeta: rutti del cervello scambiati per coscienza personale, patchwork del sentito dire, tutto contribuisce all’ignobile automatismo del lo faccio perché posso. Però, partendo dalla certezza che i geni sono davvero pochi in una generazione, diventa chiaro che se in quest’epoca si producono sempre più opere artistiche, la qualità media non può che abbassarsi. Si dà voce ai non informati, si scrivono più libri di quanti ne vengano letti o di quanti lo stesso autore ne abbia letti. Tutti creano contenuti, la maggior parte copiandoli, imitando altri senza avere niente da dire, appiattandosi zecca.
Ma, ripeto, tutto ciò, per chi viene fatto se i dati di vendita sono chiarissimi nel dire che il bacino di fruitori si sta rimpicciolendo sistematicamente? I libri non vendono, la noia viene rotta da Kindle poi va di moda scaricarsi le pagine sul cellulare e poi di nuovo su carta ma per un pubblico senile sempre più sparuto. Tutti creano contenuti perchè tutti vorrebbero essere sul palcoscenico e nessuno seduto in platea, mica per amore dell’arte. E’ questo l’abominio di onnipotenza, egocentrismo ed edonismo che si sta vivendo oggi. Se, sbadigliando sovrappensiero, si consuma qualcosa allora si predilige il contenuto rapido, omologato e leggero. Se in due righe si trova una parola che non rientra tra le cinque conosciute mica si va sul dizionario, si clicca l’icona di Whatsapp o si apreYoutube per guardare il modo più fashion per finire l’ultimo livello di God of war su Playstation. Education? It’s boring, let’s write a book!© It will look so good on my bookcase.
“La morte sta nella semplificazione del desiderio. Così come l’altra morte sta nella semplificazione del linguaggio. D’altronde, il desiderio è sempre stato perennemente appeso ad un’articolazione spettacolare e variopinta del linguaggio” (Cit. Hanno tutti ragione, Paolo Sorrentino)
Assayas ci prova, ne parla, investiga il problema del fornire contenuti in un’epoca in cui il destinatario è sempre più meschino. Non appesantisce il discorso con la polemica o arrendendosi davanti ad una forza imbattibile, racconta invece una storia fatta di personaggi forse un po’ troppo colti, carica le immagini con dialoghi sempre sul pezzo, ubriaca lo spettatore con fulminei botta/risposta arguti, competenti e profondamente irrealistici. Voglio dire: sarebbe bello se i dialoghi tra amici avessero sempre quello spessore, ma in che mondo? Il voler risultare colto e intelligente è il difetto principale del film: essere smart non è sbagliato in sé, tutt’altro, ma quando al pubblico arriva chiaro l’intento di sembrarlo è come quando nello spettacolo di magia il trucco è visibile, allora il giocattolo si rompe, la distanza aumenta e il messaggio passa in secondo piano rispetto al disturbo provocato.
Il film ovviamente non è solo un corso di filosofia della creatività, racconta anche una piccola storia. Le relazioni che si instaurano tra i personaggi non sono meno complicate dell’annosa questione di cui sopra. Tutti tradiscono tutti, ma senza astio, naturalmente e forse anche annoiatamene. Riecheggia ancora la frase più riuscita di questa coltissima sceneggiatura. Una coppia di vecchia durata, senza peli sulla lingua, tradimenti intuiti e mai esplicitati, entrambi apparentemente dediti solo al lavoro:
- Mi ami?
- Si
- Anche se non scopiamo più e non siamo mai d’accordo su niente?
- Soprattutto per quello
Ovviamente le parole saranno state diverse ma non posso chiedere di più al mio Alzheimer selettivo.
Consigliato.