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#Venezia81 – I film che solleticano l’hype alla cricchetta

di il 21/08/2024
 

A fine mese si riapriranno le porte della cittadella del cinema al Lido di Venezia per la 81. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. E’ ora di tirare fuori le scarpe buone, la schiuma per i boccoli, il collutorio extra-fresh, i tubini vivaci, le pastiglie di Moment, le scarpette rosse, le monetine per i caffè e gli occhiali da sole firmati. Tutta roba che resta in naftalina durante l’anno.
Sale al tempo stesso, legittimamente, una domanda: per quali film in concorso potrebbe valere la pena impostare la sveglia alle sei di mattina?

 

Legenda:

Semaforo rosso: no way!

Semaforo giallo: avvicinarsi con cautela!

Semaforo verde: via libera!

 

FILM IN CONCORSO

  • The Room Next Door di Pedro Almodóvar. Probabilmente il regista più popolare in concorso. Ok, è oramai anziano, ciò non significa dimenticare i grandi film che ha girato moltissimi anni fa. Disertare la visione sarebbe come dire che non si vuol più bene al vecchio zio che da piccolo ti teneva in braccio o ti portava al parco giochi mentre i genitori erano troppo impegnati a litigare, lavorare o dormire. Hype medio.
  • Campo di battaglia di Gianni Amelio. La fiducia nella cinematografia italiana dopo cinquant’anni di delusioni può solo essere considerata fede religiosa o patriottismo. Hype zero.
  • Leurs enfants après eux di Ludovic e Zoran Boukherma. Sono due fratelli francesi specializzati nel trash-horror, con risultati alterni, cosa ci fanno in concorso? E’ la Mostra ad aver allentato la cinghia o loro ad aver comprato slip troppo stretti questo inverno? Sono curioso. Hype medio.
  • The Brutalist di Brady Corbet. Semaforo verde per il regista de L’infanzia di un capo e Vox lux. Negli anni ha dimostrato di avere le qualità per entrare a pieno titolo all’interno della selezione di una mostra d’Arte. Hype alto.
  • Jouer avec le feu (The Quiet Son) di Delphine e Muriel Coulin. Le sorelline francesi hanno la laurea magistrale in drammi familiari francesi. Praticamente criminali. Hype zero.
  • Vermiglio di Maura Delpero. Non scherziamo, su RaiPlay c’è Maternal, il suo precedente disastro. Praticamente una fiction Rai casereccia su ragazze madri dentro un convento. E’ imbarazzante anche solo ricordare di averlo guardato. Ottantasette minuti di vita buttati. Hype zero.
  • Iddu di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Hype zero.
  • Queer di Luca Guadagnino. Avevo promesso di non commettere più l’errore di guardare uno dei suoi film ma è riuscito a convincere Daniel Craig a recitare la parte del protagonista. Quindi tengo fede al fioretto: un film italiano all’anno. Hype medio.
  • Kjærlight (Love) di Dag Johan Haugerud. Un romanziere in prestito alla settima arte. Di lui si trova poco in giro, sono riuscito a vedere solo Som du ser meg del 2012 ed è bastato a convincermi. Come immaginabile, ha nella scrittura il suo punto forte. Peccato solo la scelta di fare un film ad episodi. Son comunque tutti e tre pungenti e fanno da specchio alla becera umanità del quotidiano. Ha idee chiare e sa sviscerarle a dovere. Hype alto.
  • April di Déa Kulumbegashvili. Secondo film dopo il suo primogenito Beginning: pellicola dalla trama forzata, tecnicamente risibile e terribilmente tediosa. Se proprio non si resiste alla tentazione, consiglio di vederlo aumentando la velocità di riproduzione a 1,5x. Immagino volesse ispirarsi al filone greco di una decina di anni fa, con risultati nefasti. Sul finale tenta il colpaccio, facendo il passo più lungo della gamba. Immagino che in concorso debba esserci un film sull’aborto ogni anno per contratto, ecco spiegata la presenza di April. Hype basso.
  • The Order di Justin Kurzel. Ogni volta mi dico che sarà diverso. Invece alla fine di ogni suo film resta sempre l’idea di un’opera tecnicamente eccellente e capace di lasciare un segno, ma anche artificiosa e paraculo nella scelta dei soggetti. Passa dai drammi familiari, all’opera, all’imbarazzante film sul videogioco di Assassin’s Creed. Sembra più un calcolatore a base carbonio che un artista. Hype medio
  • Maria di Pablo Larraín. Dopo Almodovar, è il secondo ed ultimo nome stellare in cartellone. Larrain è un semaforo fermo in mezzo all’universo, sempre uguale, sempre bello, sempre solido. Più che un regista, una sicurezza che ha smesso di sorprendere. Hype medio.
  • Trois amies di Emmanuel Mouret. La fiducia nella cinematografia francese non di “genere” può solo essere considerata fede religiosa o patriottismo. Hype zero.
  • Kill the Jockey di Luis Ortega. Regista de L’angelo del crimine, candidato agli oscar come miglior film straniero nel 2019. Ad un poliziesco non si dice mai di no. Hype medio.
  • Joker: Folie à deux di Todd Phillips. Dopo il Leone d’oro vinto col primo capitolo, un capolavoro osannato dall’intero pianeta, tutti gli occhi saranno puntati su di lui. Hype alto.
  • Babygirl di Halina Reijn. Altra sorpresa in concorso, la regista arriva da Bodies Bodies Bodies, un teen-horror movie, di quelli da guardare mentre si stira nel primo pomeriggio. Ha dalla sua una mano di regia dinamica e che quello in concorso sarà un thriller erotico, come la sua risibile opera prima Instinct. Questa volta però c’è il solletichio di una stagionata Nicole Kidmann. Hype medio.
  • Diva futura di Giulia Louise Steigerwalt. Hype zero.
  • Harvest di Athina Rachel Tsangari, già regista di Attenberg, premiato a Venezia, e di Chevalier nel 2015, entrambi gioielli che meritano il giusto approfondimento. Hype alto.
  • Qing chun gui (Youth – Homecoming) di Wang Bing. Abituato ai suoi precedenti, lunghissimi e necessari documentari che duravano dalle 8 alle 12 ore, questa volta leggo con rammarico un minutaggio di due ore e mezza. Sarà invecchiato anche lui. Hype medio.
  • Stranger Eyes di Yeo Siew Hua. Su Netflix c’è il suo precedente A Land Imagined. Si spera che, almeno stavolta, il regista abbia ben chiaro quello che vuole dire e che, soprattutto, sia disposto a condividerlo col pubblico. Talvolta lisergico, vive di momenti rarefatti e ruba la fotografia all’orami inflazionatissimo Wong Kar-wai. Mi auguro che nel frattempo sia maturato e non abbia più paura di esprimersi. Tenendo conto del suo passato e del fatto che la selezione asiatica alla Mostra, negli ultimi anni, è risultata di basso livello direi Hype medio.

Riassumendo e onorando i sacrosanti motti della Cricchetta “non l’ho visto e non mi piace” e “non l’ho visto e mi piace“, il Leone d’oro se lo giocano: The Brutalist, Kjærlight, Joker 2 e Harvest. Al 7/9 per l’ardua sentenza.

 

Nella sezione “fuori concorso” la Mostra del cinema sfodera moltissimi nomi di peso. E’ probabilmente la sezione in cui si rischia meno un mal di testa, i titoli che ci solleticano sono:

  • Beetlejuice Beetlejuce di Tim Burton. Mega produzione hollywoodiana con Michael Keaton, Winona Ryder, Jenna Ortega, Monica Bellucci, Willem Dafoe e Danny DeVito. Hype alto
  • L’orto americano di Pupi Avati. Ho conservato un innamoramento puberale per il suo Arcano incantatore, di cui sembra riprenderne i toni. Hype medio.
  • Phantosmia di Lav Diaz. I film di Lav Diaz, già vincitore del Leone d’oro con The Woman Who Left, si guardano tutti, è la regola non scritta del cinefilo. Hype medio.
  • Maldoror di Fabrice du Welz. Ha girato i disturbanti e sporchissimi Alleluia, Inexorable e Calvaire. Poi scaduto con film per la TV su Netflix. ma non bastano a farci dimenticare il suo talento. Hype alto.
  • Broken Rage di Takeshi Kitano. Hype basso, ma spero tanto di ricredermi.
  • Baby Invasion di Harmony Korine. Pazzo furioso, visione imprescindibile. Il suo precedente lavoro è stato, nel bene e nel male, il film evento dello scorso anno. Un visionario. Hype alto
  • Cloud di Kurosawa Kiyoshi. Regista che ha fatto le sue cose migliori vent’anni fa e che si è elevato ad Autore qui a Venezia vincendo il Leone d’argento col poco memorabile Wife of a Spy. Nome piuttosto noto, non talentuosissimo ma rispettato dai fan del cinema orinatale. Hype medio
  • Wolfs di Jon Watts. Blockbuster action-comedy con George Clooney e Brad Pitt. Sicuramente non annoierà. Hype medio.

Tra le altre proiezioni al Lido mi è impossibile non citare Pavements di Alex Rose Perry, documentario su una tra le band indie che amo di più in assoluto, geniali inventori del genere low-fi e puri come nessuno, né prima né dopo di loro. E’ un momento storico, quello segnato dalle loro canzoni, a cui non riesco a pensare senza sentire una stretta durissima al cuore:

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