"Ma a chi abbiamo dato fastidio? È la nostra cultura”
(Luciano Casamonica)
Il baccano benpensante proposto dai media in occasione dei funerali di Vittorio Casamonica ‘Re di Roma’, stando ai membri del suo potente clan, mi ha intristito. Non parlo della tristezza generata dalla mediocrità diffusa e dall’omologazione collettiva dei pensieri, dalla dignità posticcia e ipocrita delle istituzioni, dal manicheismo cui non si è mai stanchi di aderire non appena se ne presenti una sempre più rara occasione.
Mi hanno fatto *compassione e tristezza i mafiosi.
Se un tempo erano loro, con i rituali, le gerarchie, la segretezza, l’omertà, a essere oggetto d’indagine, di spunto letterario, di riferimento per l’immaginario collettivo, oggi non più.
Con il vistoso set delle esequie, la mafia ha perso personalità, attualità storica.
Prima che venisse seppellita per sempre con il ‘padrino’ Casamonica, la figura del mafioso era viva. Il boss operava in clandestinità, assumendo forme diverse e rinnovando stile, giro d’affari e alleanze, ma sempre conservando un’identità originale all’interno del ruolo ‘istituzionale’, un po’ come accade per la figura del Papa con le sue progressive personificazioni.
Grazie a questi malviventi, avevamo introdotto, nel linguaggio comune, termini come ‘pizzo’ e ‘pizzino’, imparando che quest’ultimo non era il diminutivo del primo. Dai processi affrontati dagli affiliati e dalle dichiarazioni dei ‘pentiti’, avevamo conosciuto il loro organo di governo, la ‘cupola’, i rituali segreti di iniziazione, una certa ‘etica’ della violenza.
La mafia aveva ispirato scrittori come Sciascia e Mario Puzo, storici come Eric Hobsbawm, videogiochi, linee di prodotti alimentari.
La mafia aveva trasformato un mediocre scrittore in un moderno eroe inedito: il martire vivente (emulando, in questo, il precedente Iran vs. Salman Rushdie) e, soprattutto, aveva generato un filone cinematografico pressoché inesauribile e cresciuto, almeno fino al Tony Soprano ispirato al boss Simone DeCavalcante, sulle spalle delle ‘famiglie’ reali.
Adesso è tutto finito, museizzato. Non le attività criminali mafiose, ovviamente, sempre utili ai poteri ferocemente perbene che gestiscono le pubbliche risorse. E’ finita la spinta eccentrica e malignamente creatrice (o distruttrice, se si preferisce), rispetto al mondo normale, che questi disgraziati Nibelunghi del crimine imprimevano dal mondo semisilenzioso e occulto in cui operavano.
Anche per loro, come per ogni diversità affacciata sulla contemporaneità, è scattata la rimasticazione digitale omogeneizzatrice, che reimpasta e inquina irreparabilmente, attraverso la rete, i contenuti originali immessi.
Ecco, quindi, che al funerale del ‘Re’ la banda esegue la colonna sonora de ‘Il Padrino’ di Coppola. Che il carro funebre è pressoché la copia di quello usato per le esequie di Lucky Luciano (personaggio reale ma trasfigurato dalla letteratura e dal cinema). Che la pioggia di petali dall’elicottero si ispiri a quella più copiosa versata lo scorso anno sulla Statua della Libertà nell’anniversario dello sbarco in Normandia (ispirazione probabilmente ignara ma non per questo meno simbolica).
Non si è trattato, pertanto, come hanno strombazzato i media, di una ‘manifestazione di forza’, dell’arroganza mafiosa nei confronti dello Stato (che quanto a arroganza non è secondo a nessuno). E’ stato l’esatto contrario: il tentativo di ripristinare un’identità ormai perduta scimmiottando le sue parodie. Come una commedia dialettale recitata da ragazzi che hanno imparato l’idioma locale a scuola, come il simulacro della bellezza, tagliata e ricucita dai bisturi, si è trattato di finzione. Tanto come è stata finzione la manifestazione organizzata nella piazza del ‘misfatto’, reazione sopra le righe di una folla teledipendente pronta a mobilitarsi per tutto e il suo contrario.
Povera mafia, un tempo in grado di dare fama con la sua sola presenza a un oscuro paesino di mille abitanti nella provincia di New York, ridotta oggi, per avere ancora uno scampolo di gloria, a farsi invitare nel salotto di Vespa, sigillo di una tiepida mediocrità che, secondo l’Apocalisse di Giovanni, sarà vomitata.