Il primo LP (oggi vinile) che mi comprai per suonarlo sull’unico stereo proletario allora disponibile, quello del Reader’s Digest, fu The Freewhelin’ di Bob Dylan. Una dozzina di canzoni, solo chitarra e voce. Tra loro, Blowin’ in the wind che imparai a suonare di nascosto dal mio maestro che mi imponeva il Carulli (manuale di chitarra classica per principianti). Ho mosso i primi passi nella lingua inglese mandando a memoria gli ermetici testi di Dylan. On the road di Jack Kerouac cambiò la vita di entrambi.
A Complete Unknown di James Mangold racconta gli esordi del cantautore americano, premio Nobel (mai ritirato, come ricordano i titoli di coda), dall’incontro in ospedale col suo mito Woodie Guthrie e con Pete Seeger, che lo introdurrà negli ambienti del folk newyorkese, fino allo “scandalo” della svolta elettrica al concerto di Newport del 1965.
Chi non sa niente di questa storia e non gli importa nulla può saltare direttamente alla parte su Black Dog. Per i vecchi fan sentimentali, come chi scrive, è materia che sconfina nel mito e, lo dichiaro senza pudore, mi sono commosso molte volte durante la proiezione.
Grande merito, oltre alla straordinaria ricostruzione dell’epoca, è dovuto alla in(piùche)credibile interpretazione di Timothée Chalamet che non solo parla, canta, guarda di sottecchi, si muove come Dylan ma suona davvero la chitarra e l’armonica come il suo personaggio, con tanto di unghie orribili sulla mano destra come tutti chitarristi folk. Avrebbe assolutamente meritato l’Oscar al posto del gigione Adrien Brody ma, dovendo scegliere tra una vittima dell’olocausto e un ebreo di successo ambiguo e, forse, rinnegato, la potente lobby sionista hollywoodiana non ha avuto tentennamenti.
Il cuore del racconto è la vittoriosa lotta del cantautore alla ricerca di nuove forme espressive contro l’ambiente, progressista nelle idee ma molto conservativo nella forma, del folk statunitense di quegli anni, a dimostrazione dell’impossibilità, per chi è creativo e libero, di farsi imbrigliare in un cliché qualsiasi, anche quando questo è conveniente e rassicurante. Coloro che non hanno mai sperimentato almeno un cambio di pagina radicale, nella propria esistenza, per seguire questo anelito vitale non possono dire di avere veramente vissuto. Chi non capisce di cosa sto parlando, esca pure da questa pagina.
Simbolo iconico della libertà è la motocicletta. Per Dylan, una Triumph T100, quella sulla quale, un anno dopo la fine degli avvenimenti descritti nel film, farà un incidente e che, guarda caso, porterà a un’altra svolta nella sua carriera artistica.
Motocicletta e viaggio. Velocità e conoscenza. Niente casco.
Black Dog di Guan Hu, premiato a Cannes 2024 nella sezione Un Certain Regard, racconta l’amicizia tra Lang (l’ottimo Eddie Peng), un ex galeotto finito dentro per l’omicidio colposo di un coetaneo, e un levriero nero. Il film è una sorta di commedia western crepuscolare cinese, girato in un borgo vicino al deserto del Gobi, dove il cavallo è la moto, lo sceriffo è quasi un assistente sociale e i cattivi, ossia la famiglia del ragazzo ucciso da Lang, sono poveri diavoli in cerca di una consolazione per la loro perdita. A dare un senso di frontiera, oltre all’arido paesaggio, ci sono le scorribande di branchi di cani, abbandonati dai padroni in fuga dalla città, che il governo sta smantellando per ristrutturarla radicalmente, tra i quali Lang troverà il suo compagno di solitudine. La trama si snoda tra siparietti in cui compaiono anche il padre etilista dell’ex detenuto, la ragazza di un circo desiderosa di sistemarsi e persino una tigre. Il film ha una freschezza e una mesta dolcezza non comuni. Nel finale, riconciliato con se stesso e col mondo grazie al sentimento per il suo amico a quattro zampe, il protagonista, in groppa a una XCross 250, si allontana dal sua città morente verso un futuro pieno di promesse.
Motocicletta e amicizia tra randagi. Futuro e speranza. Niente casco.
Anche Reacher, nel finale della terza stagione (anch’io ho i miei “guilty pleasure”, maledetto Lee Child), dopo aver ucciso qualcosa di orribile appartenente al proprio passato (e non è una metafora, visto il personaggio, ma facciamo finta che lo sia), inforca una Harley 2003 Heritage e se ne va.
Motocicletta e fuga dalla memoria. Presente e presenza. Niente casco.
La moto è la trasposizione nel mondo moderno del cavallo, come si è detto, ossia della possibilità, per l’uomo, di spostarsi sul suolo a una velocità impossibile da raggiungere con la propulsione delle proprie gambe. L’effetto che si prova è un senso di ebbrezza, di libertà, perché in effetti si altera, anche se solo per poco, uno dei due vincoli che caratterizzano questa vita terrena, ossia il tempo, a favore dell’altro: lo spazio. Lo spazio, semplificando, è l’aspetto qualitativo dell’esistenza, quello che ci differenzia dagli altri e dal resto. Il tempo è comune per tutti.
La moto è anche il contrario di tutto ciò che è razionale, costruttivo e “normale”. Salire su un veicolo instabile con cui ci si può lanciare a 300 km orari sulla strada è un atto folle, individualista e, potenzialmente, suicida. Il motociclista lo sa e c’è qualcosa di eroico in questa consapevolezza, anche se spesso il confine tra stupidità ed eroismo è sottile.
Il casco azzera quasi completamente questa poetica introducendo il concetto antitetico di sicurezza, così come fanno il lattice con la vertigine del sesso. o la moderazione con la rivoluzione. Sia chiaro che nessuno ne sta mettendo in dubbio l’efficacia e la libertà di usufruirne. Indossarlo è una scelta legittima perchè non tutte le anime posseggono lo stesso anelito.
In quasi tutti i Paesi europei è severamente proibito guidare una moto senza casco.
Non c’è una ragione pertinente. Non è certo perché gli Stati vogliono proteggere i cittadini, visto che presto li manderanno a crepare per niente in Russia. Non per ridurre eventuali costi sociali in caso di incidente, anzi, guidare col casco rischia di far sopravvivere con lunghe ospedalizzazioni chi altrimenti morirebbe a costo zero. No. La ragione è più sottile e si inscrive nel processo quotidiano di erosione delle libertà individuali ad opera del nostro Giardino Ordinato. Viviamo in una gabbia invisibile di regole, come criceti, credendo di essere liberi quando non possiamo nemmeno più scioperare perché veniamo precettati, né esprimere idee fuori dal coro perché sottoposti a sanzioni o al blocco dei conti correnti, nè disporre del nostro corpo perché costretti a vaccinarsi o a indossare il casco, appunto.
Se il problema fosse solo politico basterebbe sostituire chi governa.
E invece la gabbia, ormai, la portiamo dentro e quasi non ci facciamo più caso. Somigliamo ai nostri animali domestici: tutti castrati, pavidi e docili. Incapaci di acchiappare il topo di un’idea divergente o di abbaiare alla luna della Conoscenza. Se non ci svegliamo subito da questo sonno travestito da veglia, moriremo come loro, senza aver provato a vivere la nostra vera natura nemmeno per un giorno.