“Io ne ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi, navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire”.
Eddai Roy, continui a ripetere le stesse cose dal 82. Ieri ho visto un vecchio in fiamme al largo dell’edicola alle Zattere. Aveva appena preso il Gazzettino e puf! una palla di fuoco in meno di un secondo, eppure ha continuato a camminare come niente fosse. Ho visto raggi UVA balenare vicino a San Beneto e cucinare un colombo in 4 secondi netti. Stanotte erano 46 gradi, 58 percepiti, non è possibile continuare così. E qualcuno osa ancora negare il riscaldamento globale! È tempo di morire….
Roy sfodera lo sguardo vitreo di prammatica e sibila con un filo di voce:
“Alles ist gut”
Eh?
“All is well. Don’t worry”.
Mi sveglio di soprassalto in un oceano di sudore. La sveglia digitale è spenta, il blackout dura ormai da ieri sera. Il ronzio amico del condizionatore è solo un ricordo lontano. Mi alzo e vado in terrazza. Campo Junghans è deserto e dal corpicino mummificato di un gabbiano si alza un filo di fumo. Mi siedo in cucina, accendo il tablet con il 42% di batteria e digito meccanicamente A-L-L-E-S I-S-T G-U-T su Netflix.
La sequenza iniziale di Alles Ist Gut e della carriera registica della Trobisch è una fiera ed elegantissima dichiarazione d’intenti, un manifesto programmatico affisso alla porta della chiesa di Wittenberg: una coppia di trentenni intenta a smantellare una vecchia casa di campagna, con insistiti close up sulle mani che strappano via ogni brandello della vecchia carta da parati.
E questa è sicuramente la cifra stilistica della Trobisch, che agisce per sottrazione, scarnifica in continuazione per giungere alla nuda essenza delle cose. Non c’è alcuna colonna sonora, la palette di colori è limitata, tutto è ridotto all’essenziale, in confronto i Dardenne sembrano i marmocchi adottivi di Tim Burton.
Alles Ist Gut è essenzialmente un character study, magnificamente riuscito e realistico, di una donna che lotta contro le avversità cercando di ignorarle, come se il rifiutare di riconoscerne l’esistenza consentisse di rimuoverle automaticamente. Alles ist gut. All is good. La scena centrale dello stupro è gestita magistralmente, lontana dalle frequenze tonitruanti di Irréversible, Straw Dogs o Deliverance e descritta invece in tutta la sua orribile banalità. La protagonista cede, quasi per sfinimento, alle avances troppo spinte di un mozzarellone (Hans Löw, già ammirato nel bellissimo Toni Erdmann) dopo una rimpatriata di ex compagni di scuola. “Are you serious?” gli chiede, più incredula che sconvolta. In seguito cercherà come al solito di rimuovere, di far finta che nulla di grave sia successo. Ovviamente, le conseguenze non tarderanno ad accumularsi. La Trobisch non urla mai, osserva senza giudicare e non lesina neanche in dark humour. Per fare questo, deve confidare molto nelle doti della protagonista, tale Aenne Schwartz, che non conoscevo e mi ha letteralmente fulminato per la sua performance naturalistica e coinvolgente. Piccolo schermo, grande film.
Alles ist gut. Basta evitare le cene di classe….