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Barbie di Greta Gerwig

di il 03/08/2023
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IL MIO VOTO


 

La prima volta che ho sentito parlare di Barbie “live action”, l’ho immediatamente inserito nel grande elenco della categoria: “Non l’ho visto e non mi piace”. Non c’è bisogno di spiegare il perché. Credo fosse l’approccio comune di ogni persona adulta, libera da mocciose da allevare.

Poi un amico ti dice che è bello, leggi che sta avendo molto successo, leggi che gli autori sono due registi “indie” prestati al mainstream, vedi folle di gente in rosa che accorrono a vederlo e cambi idea.

E’ davvero divertente.

C’è dentro quanto di meglio il cinema americano può ancora offrire: una produzione ricchissima, cast e musiche perfette, una pletora di professionisti e artisti della produzione e post-produzione eccellenti, una fantasiosa sceneggiatura piena di autoironia e citazioni.

Barbieland, il mondo perfetto dove dominano e vivono tutte le Barbie (e i Ken), è turbato dalla comparsa di sensibilità e pensieri incompatibili con la colorata e stolida realtà delle bambole. Per scoprire la causa dell’anomalia e ripristinare l’ordine, una Barbie ordinaria (interpretata da Margot Robbie) dovrà raggiungere il mondo reale e incontrare il suo “doppio” umano, ossia Gloria (America Ferrera), la proprietaria della bambola e dei pensieri esistenzialisti. Il duro scontro con la nostra imperfetta realtà, la rivoluzione “patriarcale” combinata da Ken (il bravo Ryan Gosling), la controrivoluzione, la consapevolezza della propria identità, come bambola prima e donna poi, cambieranno per sempre i destini di Barbie e del suo mondo.

Barbie, pur presentandosi come una commedia leggera, appartiene a quel genere di film “filosofici” che vogliono fare riflettere sulla condizione umana, immaginando una realtà parallela in cui esseri simili a noi ma in qualche modo più semplici, devono risolvere i propri problemi ontologici. Il genere cui appartengono, con approcci diversi e solo per dare un’idea, Blade Runner e Matrix.

Non a caso la prima incrinatura nel mondo perfetto e coloratissimo della celebre bambola è il pensiero della morte, il più ignorato, irrisolto e nascosto tabù della civiltà occidentale.

Gli sceneggiatori del film, Greta Gerwig e Noah Baumbach, non sono evidentemente filosofi o teologi, non più di quanto non fossero Ridley Scott o i fratelli Wachowski quando realizzarono le opere citate, ma, a differenza delle suggestioni aperte da queste sull’idea di cosa sia un anima o il Sé, Barbie si focalizza, o meglio, restringe la propria visione dell’umanità alla sola dimensione corporea, quella capace di provare pena e dolore, quella che muore.

Non siamo di fronte a una reinterpretazione di Pinocchio, la cui aspirazione a diventare umano è un chiaro simbolo della ricerca del superamento dei propri limiti individuali che ogni uomo dovrebbe perseguire. La trama del film non è che uno scontro, indubbiamente accattivante e a tratti esilarante, tra maschi e femmine, la cui risibilità, a dispetto del banale monologo neo-femminista di Gloria, è in linea con la situazione da commedia del prodotto ma certo non con le aspirazioni esistenzialiste che gli autori rivelano nel colloquio finale tra il fantasma della Dea-Madre Ruth (l’inventrice di Barbie) e la nostra eroina, disposta a sacrificare la perennità del suo paradiso di plastica per una mortalissima… vagina.

E’ questo l’aspetto più debole di un’altrimenti riuscita sceneggiatura, debolezza aggravata dal volerne fare, invece, il suo punto di forza. Le sentenze di Ruth non lambiscono nemmeno la superficie di ciò che significhi essere uomini e donne: “Gli esseri umani hanno una sola fine. Solo le idee vivono per sempre” (e non credo si riferisca a quelle platoniche). Se questa è tutta la “profondità” (“profondo” è l’aggettivo che più ricorre in ogni recensione letta fin’ora) che riusciamo a ricavare dalla riflessione sulla nostra condizione di essere senzienti e mortali, fossi stato in Barbie, invece che andare dal ginecologo, nell’ultima scena mi sarei sparato un liberatorio colpo alla tempia.

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