Uno si potrebbe domandare se Chiamami col tuo nome sia un film gay e a mio parere la risposta è affermativa. Non nel senso di voler schiaffare in faccia allo spettatore un provocante amore omosessuale ma si, sdogana, per una certa voglia di parità di romanticismo, ciò che in un film etero sarebbe noioso. Nel contempo sciorina paesi di campagna delicati che sembrano dei Renoir, disserta di estate e di studi, mette in mostra vecchie Fiat e biciclette, radioline e camice con le punte larghe, ragazzate e sigarette, eccitazioni e confidenze. Non raggiunge le vette di un Romeo e Giulietta, ma in punta di piuma dipinge dubbi e speranze, fino a mostrare un mondo dove ogni sognatore vorrebbe vivere, quello ricco e culturale delle ville di campagna, del padre aperto e benestante, ebreo e professore che consegna al figlio il più grande sostegno generazionale, quello di dire che si, le sofferenze d’amore, di qualsiasi valenza siano, vanno tenute in un posto speciale e non dimenticate.
Fa di più, parla anche agli indecisi, quelli che per paura di essere etichettati preferiscono negare e sprangare la porta dei dubbi, assieme a quella del cuore. Certo si tratta di un film, di un’opera letteraria e pertanto racconta solo qualcosa che valga la pena, mentre la maggior parte di noi continua a vagare nella terra delle speranze e delle certezze auto-imposte. Lo fa con una leggerezza colta ma non pedante, con uno stile né compiaciuto né offensivo, dimostrando una volta almeno che da un buon libro è possibile trarre un buon film.
Avrei voluto vedere una scena di gambe che corrono all’unisono nelle strade mattutine, cercando di confessare ciò che il fiato ha paura di dire, ma in due ore molto è già suggerito e tutte le carte vengono distribuite, il gioco a nascondino si muove in ogni scena e ci chiede di parteggiare per la superba recitazione del soggetto narrante. Il senso del tempo, il gigantismo dei problemi, la linea delle cose che passa attraverso sé e solo sé, tutto nell’adolescenza assume toni melodrammatici. Cresci, ti risponderebbe il mondo. Nel senso che più avanti capirai che il tempo ha la sua melodia, così come il mondo e le cose hanno il proprio ritmo e succedono incessantemente riempiendo una giornata di mille riflessi, cicatrici e suoni. Cresci, perché da adulto capirai che non tutto passa per il melodramma della gestazione di emozioni chiuse a riccio.
Schermaglie racchiuse in una antica villa della Versilia, fra pranzi in famiglia e ospiti che rallegrano l’estate che dipana fra musica e studi, pennichelle e nuotate, gite in bicicletta e gelati nella piazzetta della cittadina di provincia. Mattine e pomeriggi in paradiso, ore splendide traboccanti di sole e silenzio, studi di pianoforte e traduzioni di Ovidio, mentre fra i dubbi, il silenzio cala come un lieve scialle di lino.
Una storia di rincorse e pose, tormentato e struggente quanto può esserlo il domandarsi se di fronte a un’attrazione inattesa dobbiamo nasconderci o buttarci, quando sai di avere i minuti contati, ma non osi contarli, quando la vita racconta che di fronte alle ferite rinunciamo a tanto di noi per guarire più in fretta del dovuto…
Chiamami col tuo nome non è perfetto come nessuna opera di finzione può esserlo, ma sceglie con gusto e suspense il suo gioco poetico, alternando l’esplicito e il leggiadro nel mostrare le avventure e i percorsi interiori di un ragazzo attratto da un giovane ospite americano, cingendo lo spettatore col flusso di coscienza del protagonista che alterna paranoie a fantasie, con gli improvvisi moti di adolescenza assieme a scene di disincantata saggezza, rappresentando quasi un’esperienza universale, filosofica e matura.
Ma soprattutto sorprendendo con il pregio di non mischiare assolutamente, fra i dubbi dell’identità sessuale, il problema morale o religioso. Come se non esistesse proprio. Chapeau!
Il gioco del chiamare l’altro col proprio nome avrebbe bisogno di decantare fra le pagine del libro per rendere appieno la deflagrazione del consegnare se stessi, di amare se stessi nell’altro. Oppure basterebbe provarlo di persona.
L’armonia degli incastri fa sembrare a volte di non essere nel Bel Paese che conosciamo ma da qualche altra parte, in America o in Francia o su Marte, tanto che alla fine resta il dubbio che abbiano ragione i brasiliani quando dicono che gli italiani sono un popolo di gay repressi.