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…il manicheismo americano, Tonya di Craig Gillespie

di il 07/04/2018
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I recenti scandali sugli abusi sessuali perpetrati da alcune personalità di Hollywood non devono meravigliare per il modo in cui sono stati trattati e, diciamo pure, manipolati dai canali di informazione, dando origine all’ennesimo caso di ciò che è stato definito da numerosi studiosi media frenzy, locuzione che riecheggia il film di Hitchcock del 1972 solamente per la forza con cui i giornalisti (e il pubblico che li legge) tentano di soffocare i propri bersagli, così come il serial killer londinese stritolava il collo delle vittime con le sue variopinte cravatte.

Ciò, beninteso, non significa che un Harvey Weinstein o un Kevin Spacey debbano essere compatiti o tanto meno giustificati però, anche per loro, qualsiasi coscienzioso avvocato che li dovesse difendere di fronte al tribunale delle masse si alzerebbe e chiederebbe che la loro storia venisse raccontata con obiettività, forse anche separando la dimensione lavorativa dalla vita privata, e non cannibalizzasse totalmente tutto ciò che una persona ha compiuto nell’arco della propria vita.

Un simile caso di accanimento mediatico è quello che si è verificato a metà anni ’90 in America e poi nel resto del mondo, quando la pattinatrice Nancy Kerrigan fu colpita, in prossimità delle qualificazioni alle Olimpiadi invernali, da un misterioso sicario che le provocò alcune lesioni al ginocchio con una spranga di ferro.
Essere accusata, vilipesa, condannata e cannibalizzata dai media dell’epoca toccò a Tonya Harding, la sua rivale, che venne ritenuta la mandante dell’attacco e per questo impossibilitata a vita a prendere parte a ulteriori competizioni di pattinaggio su ghiaccio.

La superficiale voracità con cui le persone che dovevano divulgare i fatti nel mondo riportarono la notizia fece di Tonya la persona più odiata del mondo in quel momento, prima, naturalmente, che scoppiasse un nuovo scandalo e l’attenzione si spostasse su qualche altra celebrità.

Tanto è bastato per cancellare con un sol colpo le fatiche compiute per arrivare a gareggiare a livello nazionale, le violenze (psicologiche) subite dalla madre sin da bambina e (fisiche) dagli uomini di cui pensava di innamorarsi, la pressione e lo stress di cui ogni atleta inevitabilmente si contorna.

Se già nel IV secolo a.C. Platone ci insegnava che la dimensione pubblica dell’uomo è e deve necessariamente essere inscindibile da quella privata, non è da immaginarsi che, negli anni ’90 e ancor più a seguire, tale concetto non si applicherà solamente alla valutazione che il popolo dovrà esprimere sui politici ma anche, e soprattutto, a quella sulle più o meno very important people che avanzano, ciascuna saltando fuori dal nulla solo per affondare poco dopo nell’oblio (cit. Zygmunt Bauman).

Ecco, dunque, che il film di Craig Gillespie, volutamente girato in stile mockumentary, quasi gli si volesse dare la parvenza di un reality in casa Harding riscoperto dopo anni dalla sua messa in onda, si prefigge lo scopo di riabilitare a tutti gli effetti colei che ora ci viene presentata, dagli stessi connazionali che prima l’avevano crocifissa senza troppi scrupoli, come una vittima delle circostanze.

E, quindi, sono piovuti gli inviti per far partecipare la vera Tonya, come era già successo con la vera signora Lee per Philomena (Frears, 2013) o con Stephen Hawking l’anno de La teoria del tutto (Marsh, 2014), alle serate dei premi cinematografici trasmesse in primetime a milioni di telespettatori, come se lo stesso piccolo (qui non in senso meramente dimensionale ma morale) schermo che l’aveva presentata come il mostro della settimana ora la volesse far vedere sotto una nuova luce, che non è altro che un nuovo faretto per telecamere, e insegnare alla popolazione mondiale che lei in fondo non era cattiva, l’avevano disegnata così.

Sconvolge, dunque, come la mentalità americana, che sta lentamente ma progressivamente contagiando anche il resto dell’opinione pubblica mondiale, si riveli totalmente manichea: quando esposta, una persona o è il Male, e merita di essere esposta alla gogna, o è il Bene, e deve ricevere nella maggior parte dei casi ben più onori di quanti merita1.

Il trucco e la recitazione, a tratti fumettistici, eppure calati in un contesto sempre credibile, aggiungono realismo all’intera vicenda, la cui protagonista nasce e cresce nello stesso ambiente in cui sono nati e cresciuti coloro che poi la ostracizzeranno allo scoppiare dello scandalo. Una di loro, che è emersa dalla povertà e dal degrado a cui sembrava ineluttabilmente destinata, può e deve essere ricondotta a forza e con violenza giù nella polvere.

Perché i primi invidiosi sono le persone più simili all’oggetto della loro invidia.

1 Andrea Piras, Il Manicheismo, Mondadori, Milano 2008

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