Secondo giorno del neonato IPA Film Festival. Ancora niente sui media, bene! Voglio godermi questo festival finché è piccolo, prima che arrivino le sfilate, le code per gli accrediti, i tramezzini a ripieno monofetta con gli angoli all’insù, i mezzi di trasporto strapieni e le bimbominkia ad accalcarsi per i selfie con le star. Splendida giornata primaverile, ai londinesi non sembra vero e hanno già imbastito la prima spiaggia finta a Fulham. Cosa cazzo non si inventano pure di avere una scusa per far bisboccia. Daje torto…
A metà mattinata una mail dalla Easy Jet mi avvisa che è stata accettata la mia richiesta di risarcimento per il ritardo di oltre tre ore del volo di andata. 250 cocuzze! Jesus! Sarei tentato di ribattezzare il festival come Easy Jet Film Festival ma col culo che mi ritrovo questo articolo verrebbe letto da un rappresentante legale di Easy Jet che ha appena scoperto la moglie a letto con l’istruttore di acquagym. Dunque, vediamo il programma: oggi siamo al ICA (Institute of Contemporary Arts), sede di prestigio, butta bene. Appena entro in sala, però, il mio peggior incubo si materializza: una copia in scala 1,5:1 della sala B del Giorgione, però PIENA. Fuck, mi sistemo tra un orso in shorts ed una hippie chic in prossimità di scadenza e che dio me la mandi buona…
#IPAFF day two: FUCHI NI TATSU (HARMONIUM) di Kôji Fukada al ICA
Il mio senso di disagio viene immediatamente amplificato a dismisura dalla prima scena, una sequenza interminabile della colazione di una famiglia giapponese. Madre e figlia fanno small talk su cosa le aspetta durante la giornata, il padre tace e mangia. Il ruminare incessante dei suoi denti e il risucchio del brodo o checazzostabevendo.jp sono volutamente amplificati, tanto per calarci immediatamente in una atmosfera di malessere. Come se ne avessi bisogno…
Poi un giorno arriva l’amico che è stato in galera dieci anni per omicidio. Ovviamente compiuto in compagnia del pater familias, di cui però ha taciuto la presenza, consentendogli così di proseguire una vita normale, con tanto di creazione di famiglia e bla bla bla. Insomma, una storia raccontata 836 volte al cinema. Fukada però è bravo a centellinare la tensione, distribuendola in miriadi di sguardi e piccoli gesti. Nella seconda parte il film alza la posta, con risultati non totalmente soddisfacenti. Forse una mezz’oretta in meno non avrebbe guastato. E poi l’esagerata cerimoniosità dei giapponesi oggi mi fa girare proprio le palle. Senza i 400 inchini (eseguiti praticamente in slow motion) ogni volta che qualcuno incontra qualcun altro il film sarebbe durato non più di un’ora e venti..
Discreto, non certo il filmone di cui avevo sentito parlare.
3 stelle, tirate ♥♥♥
Off for a drink. IPA?