High Rise (Ben Wheatley): Ho sgomitato per avere un biglietto di questa proiezione, dopo l’ottimo “Kill List” e l’epilettico “ A field in England” Ben Wheatley si era guadagnato tutta la mia stima. Invece mi ritrovo a guardarmi uno dei film più insulsi di tutto il festival. Una fantascienza pretenziosa e vuota. Un film inutilmente complesso, che si parla addosso, che vorrebbe raccontare un distopico scontro tra classi sociali con piglio distaccato ed elegante, ma ne esce un rantolo tanto confuso quanto noioso. Si perde sin da subito e si arrovella nella balordaggine dei suoi personaggi, tristi ominidi plasmati da una miscela di Kafka e Saramago andata a male.
Evolution (Lucile Hadžihalilović): Un villaggio sul mare è popolato solamente da ragazzini e infermiere branchiate, i ragazzini che raggiungono una certa età vengono ospedalizzati dalle donne branchiate e subiscono trattamenti misteriosi. Questo film merita di essere visto anche solo per la perversione della vicenda e per l’angoscia opprimente di cui sono permeati certi momenti. Poco importa se poi il regista non abbia saputo utilizzare gli elementi per farne qualcosa di più di un’accozzaglia di suggestioni incoerente e superficiale. Poco importa se esci dalla sala indeciso tra l’essere incazzato o affascinato, ripensando ad un film colmo di scene che lasciano troppo spazio all’immaginazione, senza dare a quest’ultima le coordinate giuste per poter ipotizzare qualcosa di sensato. La videoarte è sempre in agguato, ma stavolta, seppur di poco, vince il cinema.
Symptoma (Angelos Frantzis): C’erano due film greci tra cui scegliere quel giorno: questo ed “Interruption” di Yorgos Zois, credo di aver fatto la scelta sbagliata, ma non sono comunque pentito di averlo visto. Pare che la “weird wave” del cinema greco si divida in due filoni, i sensazionalisti e gli indagatori del disagio: Frantzis è un sensazionalista che si finge introspettivo. E benché alcuni momenti del film siano interessanti e fortemente allucinatori, sono sempre fini e sé stessi. Stavolta ha vinto la videoarte. Ci saranno altre battaglie.
Brooklin (John Crowley): Uscito a metà proiezione, è straordinario che nel 2015 esistano film così, con donne che aprono porte che inondano di luce lo schermo, il tutto senza avere nulla a che vedere con la fantascienza. Ragazza Irlandese (si capisce da capelli rossi e cappotto verde) abbandona patria per inseguire sogno americano, diventa genio della contabilità e si innamora di giovane italoamericano che la introduce a sua famiglia chiassosa e gesticolante che lei conquista per sua abilità nel mangiare spaghetti. Risate copiose della sala, che a quanto pare ha gradito la grossolanità dei luoghi comuni. Sorprende anche che figuri Nick Hornby come sceneggiatore di un film tanto piatto e becero.
La legge della tromba (Augusto Tretti): Non sapevo nulla di Tretti, ma già mi stava simpatico per come esordì nel cinema: le informazioni che ho raggranellato su di lui dicono che frequentò la facoltà di giurisprudenza, ma l’ambiente universitario lo esasperò e durante quegli anni iniziò la sua carriera di cineasta, realizzando brevi cortometraggi “anti-religiosi”. Il suo linguaggio è completamente Naif, non facilissimo da digerire, ma l’impronta giocosa e l’inventiva di alcune gag di questo suo “La legge della Tromba” sono assolutamente brillanti.
Stage Door (Gregory La Clava): Quando si trovano film che utilizzano così bene le dinamiche di dialogo, così ricchi di rilanci, battute veloci, scambi sagaci, non si può che pensare a Wilder. Stage Door è una perla, per scriverlo gli sceneggiatori hanno attinto a piene mani dai dialoghi delle attrici durante le prove stesse, incorporandoli nel film. Curiosamente, in diversi momenti viene in mente “Birdman”, dato che i serrati dialoghi riflettono prevalentemente sulla condizione dell’attore. Eccellenti gli interpreti, dalla Hepburn a Ginger Rogers.
Heterophobia (Goyo Anchou): Libero e visivamente sperimentale, possiede una fortissima personalità, altera i sensi e conduce in un universo psichedelico fortemente connotato sessualmente. Regge bene fino al deragliamento mistico-vampiresco, che rende la seconda parte meno riuscita.
Moonwalkers: il finto allunaggio diretto da un manipolo di drogati. Divertente, a tratti divertentissimo.
Stinking Heaven (Nathan Silver): E’ un film sgradevole ma molto interessante, illustra le dinamiche di una delle tante case-comuni, luoghi molto particolari dove la vita è piena di momenti di condivisione collettiva. Spesso però, la libertà si trasforma in una sottomissione volontaria ai regolamenti dettati dall’ego di uno dei residenti, piuttosto che dalla collettività. Si destreggia malamente tra dissolvenze caleidoscopiche e disagio.
The day of the triffids: Science fiction esilarante classe 1963: tutti diventano ciechi a causa dei bagliori di una pioggia di meteoriti, nel frattempo compaiono piante aliene che attaccano gli umani. Ma nel finale SI SCOPRE che l’acqua del mare le corrode come fosse acido muriatico. Il racconto da cui è tratto probabilmente aveva un senso (ad esempio le piante erano frutto di sperimentazioni genetiche, e non alieni) Ma viene rielaborato quasi completamente e diventa una vaccata. Da vedere per i bellissimi effetti speciali artigianali.
Tangerine (Sean Baker): Devo esordire, come da copione, dicendo che il film è stato girato con un Iphone 5, ma puntualizzo anche che questa è la cosa meno interessante che si possa dire di Tangerine. Il film diverte, le protagoniste eccellono, il (trans)gender deborda nella sua accezione più libera, conscio, finalmente, di potersi rappresentare come identità comprensibile anche al di fuori del proprio recinto. Molto più frenetico e comico del precedente “Starlet”. Consigliatissimo.
The girl in the photographs: Non c’è tanto da dire, killer mascherato, ragazzi che muoiono uno dopo l’altro, vicenda fumosa, prodotto da Wes Craven (RIP Agosto 2015), ma questa è l’unica connessione che si rileva con lui. Film dimenticabile e già dimenticato.
Nasty Baby(Sebastian Silva): trio di amici composto da coppia gay e ragazza single. Lei brama lo sperma di uno dei due perché necessita di arginare l’angoscia della sua patetica esistenza con un bambino. I personaggi sono insopportabili e il film si preannuncia una tragedia, ma ecco che l’irruzione di una variabile impazzita ed un episodio violento trascinano la vicenda su di un terreno decisamente più interessante ed avvincente.
Kilo Two Bravo (Paul Katis): Un manipolo di soldati finisce in una valle infestata di mine e cominciano a saltare per aria uno dopo l’altro, la prima esplosione impressiona, la seconda mette angoscia, ma dalla terza in poi diventa un carosello di gambe amputate di cui si attende disperatamente la fine.
Love & Peace, (Sion Sono): La favola di una tartarughina dolcissima che si tramuta in Godzilla, e del suo padroncino: Il natale secondo Sion Sono. E’ quello che ho preferito tra i due visti quest’anno, perché più ricco di trovate e più smaccatamente favolistico.
The Idealist (Idealisten)(Christina Rosendahl): finalmente posso utilizzare questa espressione: The Idealist è un SOLIDO FILM D’INCHIESTA che narra la battaglia di un gruppo di vittime di un disastro nucleare avvenuto in epoca della guerra fredda, e poi insabbiato per ragioni politiche. A guidarli un giornalista integerrimo e scrupoloso. Il pregio del film è quello di mantenersi su di un piano emotivo neutro, mostrando le ragioni strategiche e politiche che hanno determinato una tale vicenda. A fine visione ci si pone due domande: quanto si è disposti a pagare per ottenere di far luce su di un mistero del passato? E a chi porterebbe giovamento?
Soylent Green (2022: I sopravvissuti): Con Charlton Heston ed Edward G.Robinson: Classico B-movie di fantascienza. Geniale la trovata del Soylent, una specie di crocchetta multiforme e multicolore, divenuta alimento universale dell’essere umano, altra trovata brillante sono le pratiche cabine per suicidarsi in serenità. Racconto science fiction con poche pretese, come da copione, che fa da pretesto a qualche scazzotata.
Shinjuku Swan: L’altro Sion Sono, tutto sommato un buon film, anche se pare che da quando sia diventato fenomeno cult abbia completamente rinunciato ad un cinema più impegnato nei contenuti. Stilisticamente brillante, come sempre, e ci concede pure il piacere di qualche trovata narrativa degna di nota.
Laca Crater: una storia d’amore tra una ragazza ed un sacco di iuta paranormale, la camera indugia su dettagli inutili e va fuori fuoco ogni cinque secondi, e il film si rivela una promessa mancata. Ma una cosa va assolutamente aggiunta: il film possiede qualcosa di estremamente originale, il fantasma è rappresentato da una persona tangibile con semplicemente un sacco di iuta in testa, e il rapporto iniziale tra i due incuriosisce e diverte. Rimane un film bruttino, ma al contempo uno di quelli a cui torni a pensare di volta in volta.
Coup De Chaud, (Raphaël Jacoulot): Il terreno è delicato, ma i personaggi sono scritti e rappresentati egregiamente. Ragazzo ritardato piuttosto fastidioso e relativamente molesto si rende colpevole di qualche episodio spiacevole, ma quando accade qualcosa di veramente grave sarà la comunità a rivelarsi un mostro ben più folle, sadico e sanguinario di lui. Uno dei migliori film visti quest’anno.
Swimmers: Boris Zolotov, noto e controverso fisico sovietico abbandona il suo istituto per intraprendere un suo personale percorso di ricerca, esplorando la ritualità ed elaborando una filosofia personale. L’autrice lo segue assieme ai suoi seguaci e ne riporta le illuminanti riflessioni sull’uomo e sull’esistenza.
It happened here: che sarebbe accaduto se i Nazisti avessero occupato l’Inghilterra? Film imperfetto e frammentato, stile semi documentaristico con improvvise impennate espressioniste. Prodotto con sole 20000 sterline. Una delle scene iniziali, Il massacro notturno, è un capolavoro di regia e montaggio, da studiare inquadratura per inquadratura.
I racconti dell’orso: Si tratta, per stessa ammissione degli autori, di un accozzaglia di siparietti ripresi nelle surreali lande della Siberia, a cui si è tentato di dare un senso in sede di montaggio. Un filmino della gita con protagonisti omino in calzamaglia rossa e compare robot. Confonde pericolosamente lo spirito infantile con l’idiozia; i risultati sono infelici, e, come se non bastasse, il doppiaggio dei due personaggi è insostenibile. Belli i paesaggi.
Treasure: L’idea strampalata di uno spiantato: investire in un metal detector per cercare un tesoro nascosto nel giardino di una villa appartenuta ai suoi Avi. La comicità che permea tutta la pellicola è discreta e quasi involontaria, il che rende le situazioni oltremodo esilaranti. Ambientato per la maggior parte del tempo nel famigerato giardino, troviamo, assieme ai due protagonisti, un comicissimo esperto utilizzatore di metal detector. (SPOILER) Il film, grazie a Dio, rivela la sua natura favolistica nel finale, non avrei retto a vedere i due poveri cristi fare una brutta fine.
Just Jim, (Craig Robert): ritroviamo l’ottimo Emile Hirsch di “Into the wild” in una commedia che parte bene, troppo bene, poi improvvisamente diventa una puttanata senza speranza di redenzione. E non è finita: proseguendo diventa talmente pessimo che viene da chiedersi cosa sia successo alla produzione, ipotizzando addirittura un sabotaggio. Si percepisce lo sgretolamento progressivo e avvilente delle premesse iniziali, ed il rifiuto palese di soluzioni di sceneggiatura che paiono servite su di un piatto d’argento.
A Morning Light (Ian Clark): curioso come strade differenti portino ad avvicinarsi a uno spettro tematico comune. L’autore di “A morning Light” afferma di avere tratto ispirazione per il film da ricerche sulla ADSP (Advanced Sleep Phase Disorder). Eppure io ero certo che uno dei riferimenti principali del film, negli intenti (ma non nei risultati) fosse “Picnic ad Hanging Rock” di Weir. Quando ho rivolto l’osservazione al regista, presente in sala però, questi ha affermato di non aver mai visto il film. Insomma, a parte questa curiosità, il film esplora quell’inquietudine sottile e terrificante che proviene dall’insondabilità di certi avvenimenti. Credo che sia una delle cose più difficili da rappresentare in un film, e infatti questo fallisce miseramente, rivelandosi noiosissimo e poco approfondito.
Sayat Nova, (Sergej Iosifovič Paradžanov): traduce per immagini la sensibilità lirica dell’opera del poeta armeno Sayat Nova. Le scene si susseguono come quadri, un teatro di allegorie mistiche e distanti, che ipnotizza ed affascina. Il tempo rallenta sino ad annullarsi e le immagini conducono in un nuovo universo. Una meraviglia.
Eva Nova (Marko Skop): Eva è un attrice con un passato remoto di gloria ed un passato recente di alcolismo. Decide di ripartire da zero, e riallacciare i rapporti con il figlio, ossia da colui che fu dimenticato quando lei era sulla cresta dell’onda, ed in seguito maltrattato e deriso, quando era alcolizzata. Magnifica Emília Vásáryová nei panni di Eva e bravissimo anche Milan Ondrik, nei panni del figlio Dod’o, l’evoluzione del rapporto tra queste due figure è brutale e commovente, magnifico debutto.
Morituri (Andrea Segre): Unità di tempo, luogo e azione, piano fisso. Ambientato nel cimitero sconsacrato di San Pietro in Vincoli di Torino, sin troppo rigoroso, verboso ed immobile, a momenti ispirato, in altri soporifero, riuscito a metà. Teatro filmato che però rifiuta drasticamente le possibilità offerte dal cinema, inclusa la scansione diegetica delle inquadrature e dei raccordi, inaridendosi eccessivamente. Da menzionare tra le tre protagoniste la bravissima Donatella Bartoli.
La Resistance de l’Air, (Fred Grivois): Incredibile come questo film riesca ad imbrattare di noia e piattume una figura emblematica ed avvincente come quella del cecchino. Girato con il pilota automatico, senza un briciolo di personalità, sbagliati gli attori, tra cui ritroviamo il Johan Heldenbergh di Alabama Monroe e Dio Esiste e Vive a Bruxelles. Inconsistente la trama. Manco ricordo più come va a finire.
“…perchè necessita di arginare l’angoscia della sua patetica esistenza con un bambino”
Sempre ottimo il ceccoli! Una serie di piccole perle, ognuna col suo valore distinto