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…LATE LATE REVIEW, Il Filo Nascosto di Paul Thomas Anderson

di il 17/09/2018
MI PIACE

il termine "chic" inteso come oscenità. Dovrebbe valere tutt'oggi

NON MI PIACE

Quel dialogo con il fantasma della madre, che fa tanto Clint Eastwood. Ne avrei fatto a meno. Non devono essere sempre i morti a mantenere in piedi le storie del presente

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IL MIO VOTO


 

Non è la prima volta che Paul Thomas Anderson s’impegna a costruire la descrizione di un uomo che ha deciso di mettere da parte ogni fragilità propria all’essere umano, con il perverso proposito di raccontare una storia che è al contempo permeata di vulnerabilità e narcisismo (già lo fece in “The Master” e in “Il Petroliere”).

Reynolds Woodcock (il personaggio con il quale Daniel Day-Lewis decide di offrirci il suo canto del cigno), è un donchisciottesco importante couturier in una raffinata Londra del 1954 e dintorni. I primi momenti, fatti di colazioni e ritualità, ci inducono alla correlazione narrativa che vuole che la labilità dei rapporti sentimentali di Woodcock lo siano quasi per contrapposizione con l’impenetrabile e salda collaborazione che esiste tra lui e sua sorella Cyril (una maestosa Lesley Manville).

Reynolds e Cyril si rispecchiano e imitano l’un l’altro nella minuziosità con cui portano avanti il “marchio” di famiglia -il nome “Woodcock”- il contatto con l’aristocrazia di tutta Londra (e anche di tutta Europa). E’ allo stesso tempo però, un rapporto di ambivalenza, che funziona perché gli impulsi di uno sono contrari agli impulsi dell’altro. Tra di loro esiste un sodalizio, una complicità professionale, ma in quanto spettatore non saprei se il regista voglia che esista anche quel sentimento pieno, assoluto, incondizionato che ci si aspetta tra un fratello e una sorella.

Nel loro mondo (in quello di Cyril e Reynolds) non sono precluse distrazioni della pelle, lo sono invece ogni forma di impegno che non sia quella verso il lavoro, la stoffa, la forma d’arte che c’è nel creare abiti. E tra queste forme d’impegno che non possono essere ammesse c’è il matrimonio: è un’istituzione che Reynolds non potrebbe gestire.

Questo fino all’arrivo di Alma (Vicky Krieps). Ed è qui che l’arco narrativo inizia a tracciarsi con molta più chiarezza: Reynolds passa dall’essere un tiranno distaccato che pian piano soccombe alle piccole ma ben orchestrate richieste della sua nuova musa, finché non lo vediamo piegarsi come uno schiavo disposto ad ogni cosa.

Perché Alma? Alma, che non arriva “alla Maison” per essere accondiscendente, per acquietare: Alma che invece arriva per irrompere. Alma vuole affermare il suo posto in quel delicato schema di vita, ma non ci è dato sapere troppo di lei. Cosa in realtà abbia Alma di diverso rispetto a tutte le donne che sono precedute, è appunto l’abbagliante incantesimo che ci mantiene incollati alla storia fino all’ultimo secondo.

Paul Thomas Anderson sa che i momenti di agonia devono essere di tormento e sofferenza prolungata, ed è la stessa consapevolezza che offre nei momenti di euforia, anche questi intensi e maniacali.

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