Nella vita, presa come concetto il più astratto e generale possibile, c’è un tempo e un luogo giusto perché qualsiasi cosa abbia principio e fine. E’ da questo assunto che parte la disamina poetica del regista. Un Peter Weir che – ben prima di conquistare il mondo con L’Attimo fuggente – senza spocchia alcuna, decide di non imporsi, limitandosi a sussurrare un viaggio leggero, incantevole (quasi fiabesco) e profondo. Un viaggio breve, che non supera il tempo di una facile arrampicata.
Il film vive l’attesa cosciente della promessa sposa della morte mentre va incontro al suo destino con la naturalezza e la spontaneità che merita: cantando, sorridendo, leggendo lettere d’amore e pettinando i sottili capelli biondi. Un po’ come nel giorno del mio compleanno, mi faccio bello per andare incontro al sempre più vicino, inevitabile, oblio. La tentazione di rincontrare sé stessa è troppo allettante e la curiosità è troppo viva perché la giovane desideri opporre resistenza: nei recenti, superatissimi, anni del boom economico la volontà è stata sopravalutata e ancora ne viviamo gli strascichi nefasti, ma chi sa riconoscere gli indizi e osserva la storia con uno sguardo ancestrale si rende perfettamente conto di quanto poco sia dovuto al caso e di quanto – da sempre e per sempre – volere non è mai stato (e mai sarà) potere. La saggezza sta quindi nel vivere con interesse e nell’accettare il proprio destino, avendo ben chiaro il fatto che accettare non significa rassegnarsi. Dallo sguardo sicuro e sereno della protagonista non traspare alcun velo di disperazione.
Una ragazza come tante, bellissima, in un giorno qualunque, sente che qualcosa di speciale sta per accadere. Viene sedotta da questo sentire e la sua realtà diventa più vivida e più densa del reale. E’ la terra ad attrarla, a chiamarla ed a divorarla. La terra è la morte, il paradiso e l’inferno.
Alla seconda volta che mi si è chiesto se non fosse per caso un film horror m’è venuto il dubbio, perché l’opera possiede tutto il terrore del richiamo crudele e irresistibile di una natura ferma all’alba dei tempi, e il mistero mitologico di un mondo rarefatto del quale ci si illude di conoscere le regole. Il film è una somma di tensione e disillusione, e sa impietrire. Fagocita, ti guarda silenzioso e mette in crisi ogni possibile via d’uscita, se non quella più penosa: chiudere gli occhi e le orecchie e imitare l’Eterna Bugia® che si tramanda da millenni anche se smentita e smascherata sistematicamente dalla prassi quotidiana osservabile di ogni generazione: ripercorrere strade sicure anche se è noto che per sicuro si intende sicurezza di annoiarsi, addormentarsi, non pensare, immaginarsi felici e completi senza alcuno spazio riservato all’istinto, alla gioia del presente ed alla multi dimensionalità dell’esistenza. L’essere umano non è un fumetto stampato in bianco e nero. Maledetta Eterna Bugia®.
Nel mistero di questa attrazione fatale verso l’ignoto accecante (per via del buio pesto o della luce insostenibile), la maestria del regista sta nel non creare alcuna aspettativa di soluzione possibile e al tempo stesso stratificare via via altri misteri ed altre impossibili soluzioni. Questo sedare forzatamente le aspettative del pubblico costringe a spostare l’attenzione su di un livello che non risponde al banale causa-effetto. Tradisce, insomma, solo per poter nutrire con un pasto ben più succoso. Peter Weir inventa così una strategia artistica mai esplorata prima che mi sorprende ogni volta che la rivedo.
La trama è capace di farmi rimanere in angoscia per giorni: la totale impotenza, i vicoli ciechi e i muri che alza mi schiacciano. Potrei riguardarlo dieci volte di seguito senza pausa, e rimanere sempre con la voglia di rivederlo. E’ uno di quei 5-6 film che mi hanno profondamente costituito. Come hanno fatto i Massimo Volume nella musica. Oggi sono come sono per via di pochissime contaminazioni, tutte esaurite prima dei 24 anni.
Picnic at Hanging Rock è un capolavoro che nell’anno in cui è uscito ha segnato la rinascita cinematografica di un’intera nazione.
Consigliato!