No cazzo, un’altra recensione di Suspiria? vi chiederete basiti. Lo so, vi chiedo perdono. E comprensione. Non è facile spiegarvi a fondo il valore salvifico di questa recensione per il mio vacillante equilibrio mentale. Questo è un atto di pura catarsi. Per più di un anno, dopo la visione di quel monumentale oltraggio alla settima arte che risponde al nome di A Bigger S(hit)plash, ho sognato ogni notte Corrado Guzzanti che mi rincorreva in divisa da maresciallo dei carabinieri con una di quelle retine per pulire le piscine. È stato un periodo nerissimo, in cui la mia innata tendenza alla coprolalia ha assunto dimensioni preoccupanti ed ha seriamente iniziato ad inficiare i miei rapporti sociali. Credevo di esserne ormai uscito quando, due giorni fa, mi sono trovato davanti ad una locandina variopinta che riportava la sacra trimurti di A Bigger Shit: Luca Dakota Tilda. Dopo un attimo infinito da urlo di Munch, ho deciso finalmente di affrontare i miei demoni. Non potevo scappare per sempre. Il momento era arrivato.
Ok. Suspiria, dunque. Film culto per antonomasia, sacra sindone venerata da legioni di fan del babbo di Asia che avrebbero gridato al sacrilegio anche se il remake fosse stato girato da Kubrick in persona. Personalmente non è un tabù perché considero tutta la virata horror argentiana successiva alla trilogia degli animali ed a Profondo Rosso come prototipi perfetti di cinema comico involontario. L’ambientazione, rispetto all’originale, è trasposta da Friburgo a Berlino. E qua iniziano i primi guai del film. Guadagnino decide di buttare nel calderone un po’ di tutto, dalla guerra fredda a Baader-Meinhof fino all’olocausto, manca solo la finale Germania Olanda del 74 o un close-up di Nena che verga i versi immortali di 99 Luftballons. C’è troppa carne al fuoco e Guadagnino non ha la mano per gestire questa complessità. Quella con cui Cuaron riesce a incastonare nella narrazione la situazione politica argentina in Roma, tanto per capirci.
Non bastasse, il Guada si accanisce ad appesantire il tutto con meta-riflessioni telefonate su femminismo, maternità e senso di colpa. Lo sbracamento totale arriva poi nel gorefest dell’ultima mezzora dove il nostro sembra rifarsi più al finale gastro-esplosivo di The Meaning Of Life dei Monty Python che agli stilemi dell’horror tradizionale. C’è dunque qualcosa da salvare in questo mappazzone di oltre due ore e mezza?
Sì – non ci credo, lo sto scrivendo davvero – sforbiciando come pazzi c’è quasi un bel film di un’ora e mezza qui dentro. La fotografia è sontuosa e l’atmosfera è credibilmente malefica per quasi due ore. Le scene di danza sono vorticosamente ipnotiche, anche se il Noé di Climax avrebbe più di qualcosa da insegnargli. Tilda Swinton è regale come sempre e qui si sdoppia, anzi triplica. E lo splendido score di Thom Yorke vince a mani basse il Perle Ai Porci Award® 2018, dio solo sa come sia stato imbarcato in questa operazione (secondo le indiscrezioni del buon Tanaka potrebbe essere stato raggirato dal perfido Guadagnino sulla natura del progetto, spacciato probabilmente per un western metafisico).
Ed allora gettiamo il cuore oltre l’ostacolo ed in un rigurgito di orgoglio sovranista che va tanto per la maggiore puntiamo su Luca nostro, che ad oggi rimane un raffinato regista di spot di moda prestato al cinema: intorno al 2030, ormai abbandonato dalla critica passata nel frattempo ad osannare la svolta registica di Young Signorino, riuscirà a regalarci finalmente un gran film. Con tutti i personaggi impersonati da Tilda Swinton. Ed un cameo di Corrado Guzzanti…