Perché il Signor Vitalis tossisce sangue? Che malattia ha? Ma si muore?
Il mondo era tutto un fremito, il flebile brivido allo stomaco non mentiva e, finalmente, oggi è arrivata la notizia: il live action de Il Dolce Remí esce al cinema. Mi stavo preparando psicologicamente da dio solo sa quando, ed ora eccomi alla prova del nove. Mi lavo in fretta e ingurgito velocemente una manciata di psicofarmaci. Arrivo al multisala con largo anticipo per prendere i posti migliori, suona l’allarme dell’anima, la protezione civile è in allerta per l’imminente ondata di suicidi.
A metà proiezione, il bimbo seduto accanto, preoccupatissimo, domanda: “Perché la scimmietta di Remì non si sveglia?”
La nonna biondo platino prova a tranquillizzarlo: “Non ti preoccupare, sta solo dormendo”.
I pantaloni nuovi, taglia forte a vita alta, e la sua quarta elementare la fanno sembrare credibile quanto una ciambella con l’artrosi.
Non avendo, non dico i soldi per comprarmi la villa alle Hawaii o la Porsche, ma nemmeno una di quelle gattine russe, mute, docili, utili da tenere in un angolo della casa da usare al (sempre meno incalzante) bisogno, sfogo cosi la crisi di mezza età: compro giocattoli anni ottanta.
Non lo faccio perché siamo all’apice della popolarità della cultura pop né perché i nerd dominano il mondo, lo faccio per tenermi connesso a una giovinezza che ricordo felice, convinto che sia l’unica possibilità per avere abbastanza concime per coltivare i miei otto anni cristallizzati a fatica: lo scudo imbattibile che mi difende dalle bordate dall’età adulta, quella in cui s’ammosciano anche i giocatori più capaci. La morbosità con cui mi attacco a certi aspetti dell’infanzia mi fa capire di portarmi dietro ancora parecchie cose irrisolte ma il flaccido caucasico dal cervello di pietra che invecchia nella quotidianità è una deriva che vorrei risparmiarmi. Specie se, come al solito, il proprio annientamento paga a malapena il mutuo trentennale di una casa economica in periferia.
Mi giro e l’orecchio cade su un altro bimbo paonazzo e terrorizzato: “Perché il Signor Vitalis tossisce sangue? Che malattia è quella? Ma si muore?”
Un ricordo si riverbera sfocatamente nei sogni e viene puntualmente rievocato nei discorsi svogliati alle feste in famiglia: un vecchio gioco in scatola. Un pungolo saltuario ma inesorabile che non ho mai preso troppo seriamente, almeno fino ad oggi. Una barchetta fucsia, 4 segnaposti colorati, la mucca e una grande ruota al centro del tabellone. C’è stato un momento in cui un giovanissimo me, sensibile e minuto, ha sofferto all’idea che in poco tempo il gioco del Dolce Remí fosse finito in pattumiera troppo consumato, sparpagliato e mal utilizzato.
Tiri il dado, muovi la pedina e arrivi alla casella Imprevisti, alzi la carta e leggi: “nel viaggio verso Lione hai preso la tubercolosi, infetti tutti gli altri giocatori”.
Probabilità: “Trovi la mamma ma lei vive felice con un’altra famiglia e ti passa a fianco per strada fingendo di non riconoscerti, nel frattempo il caro nonno adottivo muore di freddo”.
Imprevisti: sul treno per bordeaux ti siedi sul sedile lasciato da un malato di colera. Stai fermo quattro turni seduto sulla tazza del water.
Imprevisti: passi un turno in prigione.
Imprevisti: epidemia di tisi in prigione, vivi in un’epoca di merda e gli antibiotici sono un miraggio.
Basterebbero le foto degli occhi gonfi, dei fazzoletti umidi e delle facce sfatte dei bambini rimasti in sala, meno fortunati dei loro coetanei usciti anzitempo, a recensire la pellicola. Me l’immagino l’archetipo del genitore degenere: “Dai che andiamo a vedere il film tratto da un cartone animato che guardavo da piccolo!”. Con voce squillante, bello carico e ottuso fino al midollo. Quello che non ricordi, bastardo irresponsabile, è che Remí non è un cartone animato qualsiasi, è il marchio di Caino che hanno oggi tutti quelli che frequentavano le elementari 35 anni fa, quelli che tengono da allora gli occhi bassi, traumi terribili, adulti che ancora non vedono la luce e piangono ogni notte, squarciati. Remì è la severissima lezione che non era il momento di impartire, era il gusto di fare poltiglia della gioia, della speranza e dell’indispensabile sensazione di sicurezza di cui avevano bisogno i bambini della media borghesia europea per crescere sani. Remi è il letto del fachiro in cui far vivere i peggiori incubi ai propri figli.
Finisce il film: singhiozzi, musi lunghi, muco verde al naso, sguardi d’odio, espressioni perplesse, facce di bronzo, maschere neutre. E i genitori con le chiappe strette rimuginano imbarazzati su cosa dire, sperando che da grande il figlio potrà perdonarli. Alcuni vorrebbero tornare indietro nel tempo per evitare questa punizione ma ormai è tardi. Niente sarà più lo stesso dopo un film in cui il piccolo Remì, odiato dai genitori adottivi, cacciato di casa, venduto per ben due volte, vive di stenti esibendosi in spettacoli di strada sfruttato come un animale. In due ore il tenero Remì vede morire tutti i suoi amici di terribili malattie. Viene aggredito, rapito e quasi ucciso. Dorme in fienili di fortuna, scappa, cade nel fango, si ammala, ha paura, soffre il freddo, viene assaltato dai lupi e umiliato da gentildonne d’alto rango. Tutta la storia è di fatto una folle esaltazione dell’alta borghesia.
Remi ha 8 anni.
Remì insegna che se sei povero la vita è puro dolore, non cambia, tanto vale rassegnarsi. L’unica speranza è un colpo di fortuna, un arricchimento casuale, piovuto dal cielo in un finale parzialmente rivisto e buonista, altrimenti solo morte, malattia e sofferenza che, certo, saranno anche tutte sacrosante verità, ma far ingollare un boccone così amaro ai bambini è criminale.
Remì, mi hai rovinato l’infanzia tanti anni fa e l’hai rifatto oggi a tutti i giovinetti presenti in sala. Ti dovrei odiare ma fai parte di me e se provassi a separarti mi strapperei troppo.
Infine, un consiglio importante, dopo aver assistito alle avventure di Remì vanno assolutamente attesi almeno sei mesi prima di vedere sia L’Incompreso di Luigi Comencini che Il Cucciolo di Clarence Brown, pena gravi danni psicologici permanenti. Viste le tematiche, sarebbe stato deontologicamente importante, da parte delle case cinematografiche riunite, far uscire assieme a questo il nuovo attesissimo film su He-Man and the Masters of the universe, con tutta la sua ignorantissima gioia ben educata avrebbe ridato speranza all’universo.