Black Panther di Ryan Coogler: il film più razzista di sempre

Belle le facce degli spettatori all’ultimo spettacolo de ‘Il giustiziere della notte’. Vecchi canuti e nostalgici di Charles ‘Volto di pietra’ Bronson insieme a giovani bulli con grugni che dicono ‘se mi guardi un secondo di troppo ti stendo’.

Mi siedo a sbafo nella fila delle poltrone VIP allo Space Cinema, in tono con la mia età e gli anni ’70, dove le persone potevano ancora farsi i cazzi loro, senza troppe regole, sorveglianze e improvvisati vigili urbani col ditino alzato a correggere i comportamenti scorretti.

Poi il film parte e lo scatto che ti saresti aspettato da Eli Roth, il regista, non c’è. Niente sadismo, poco sangue, visto l’argomento, ma, in compenso, tutta l’inverosimiglianza delle sue opere più allucinate (basti citare l’arma da fuoco che cade dalla tasca del malvivente in ospedale, guarda caso uno della banda che gli ha fatto fuori la moglie).

Addio tormenti interiori dello scorso millennio. Il nuovo giustiziere ha il solo problema di pasticciare un po’ con le armi ma, alla fine, è il solito bravo ragazzo americano che se lo si fa arrabbiare sono guai. Sono già pronto a consegnare il remake nell’oblio del ‘facevi meglio startene a casa’ quando l’infantile lieto fine scioglie il nodo che teneva irrisolto il mio commento al film più razzista di tutti i tempi: ‘Black Panther’ di Ryan Coogler. Come è possibile, mi chiedevo, che tutte le recensioni che ho letto, compresa quella sempre coltissima di ‘Sentieri Selvaggi’, non condividano con me questo giudizio?

Il Marvel movie immagina una civiltà ricchissima, tecnologicamente avanzata e segreta, chiusa nel cuore dell’Africa: una New York futuribile, abitata solo da neri cool. Mentre gli abitanti si godono la bella vita della Big Black Apple, intorno a loro, gli altri africani, evidentemente appartenenti a civiltà sottosviluppate, sono stati, nel tempo: massacrati, fatti schiavi, deportati, colonizzati, depredati delle loro ricchezze, avvelenati e costretti a farsi la guerra per servire gli interessi dell’occidente. Ok, direte voi, se i wakandiani (i neri cool) non sono mai intervenuti per fermare tanta ingiustizia ci sarà stata una ragione forte. Eccola, citando il loro re: non era nel loro stile. Il cattivo di turno, giustamente, è un po’ incazzato e vuol rendere pan per focaccia ai bianchi rapaci scatenando una bella guerra. Black Panther interviene, lo uccide ma capisce che, in fondo, non ha poi tutti i torti. Deciderà, allora, di rivelare l’esistenza della sua civiltà al mondo e condividerne le mirabolanti ricchezze e invenzioni.

Voglio bene a Stan Lee, un uomo che è riuscito a bloccare il suo sviluppo cerebrale e la conseguente fantasia nell’eterno, torbido e maleodorante periodo della preadolescenza. Un nerd di successo. Creò il supereroe nero nel 1966 per espandere il suo mercato agli afroamericani. Niente da dire.

Ma Black Panther è un film del 2018, con regista, sceneggiatori e cast tutti di colore. A nessuno è venuto in mente che in Africa esistono, o almeno sono esistite, altre civiltà, con valori e conoscenze di pari dignità, se non superiori a quella newyorkese? Nessuno si è sentito offeso dal vedere che un mondo avanzatissimo come quello di Wakanda è retto da un sistema in cui chi ha la sventola più forte diventa re? Quella scenografia piena di sincretiche pacchianerie negroidi da baraccone di Luna Park non ha indignato nessuno?

Evidentemente no ed il perché, come dicevo, è nella concezione del remake firmato da Eli Roth.

Lo spettatore dello scorso millennio chiedeva logica, coerenza, verosimiglianza in quello che gli veniva proposto, pena la perdita di interesse o la rivolta per essersi sentito preso per il naso dalla pellicola.

Allo spettatore, oggi, si è sostituito invece il consumatore che, per definizione, non deve possedere alcun senso critico ma solo un’insaziabile tendenza a divorare tutto quello che viene proposto al suo target di appartenenza. Il nuovo giustiziere si muove in un cartoon irreale, fasullo come il regno della Pantera Nera, fatto di ignoranza e luoghi comuni, ossia gli stessi ingredienti di cui si nutre l’audience odierna. In un sistema chiuso come questo, pertanto, perde di significato il farsi domande. I buchi di senso e sceneggiatura sono riempiti dal rumore grigio della superficialità ed ecco che travoni macroscopici come i razzisti stereotipi sulla razza nera presenti nel lavoro di Coogler, diventano invisibili, mentre pagliuzze come il solito cameo del bianco Stan Lee in un (finto) black movie, diventano interminabili discussioni sui social.

In estrema sintesi, l’uomo del terzo millennio è più limitato di quello del secolo scorso. La cosa non mi turberebbe più di tanto se non fosse che, per il fatto che il grande pubblico avrebbe potuto trovarlo ‘troppo intellettuale’ (sto citando le ragioni della Paramount), un visionario e psichedelico film come ‘Annihilation (Annientamento)’ di Alex Garland, nato per il grande schermo, è stato distribuito in tutto il mondo, tranne che negli USA, Canada e Cina, solo attraverso Netflix.

Come dire che, per i tycoon americani, noi siamo persino più stupidi dei loro connazionali.

E questo, mi si conceda, è veramente troppo.

 

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